Il thriller tedesco firmato da Philip Koch ha l’ambizione del grande cinema concettuale, ma resta schiacciato da una metafora che si prende troppo sul serio. E da un muro che, più che inquietare, annoia.
«Un incubo domestico che si trasforma in un esperimento sociale claustrofobico»
Immaginate di svegliarvi una mattina e scoprire che il vostro condominio è stato sigillato da un muro di mattoni neri, impenetrabili, comparsi dal nulla. Nessun segnale con l’esterno. Che fareste? É esattamente quello a cui dovranno rispondere i protagonisti di Brick, il nuovo film di Philip Koch, già creatore della distopica serie Tribes of Europa. E anche se il film arriva su Netflix travestito da thriller claustrofobico, abbiamo a che fare in realtà con una lunga allegoria sulla società iperconnessa, servita fredda e senza sale.
Brick: Murati vivi
Svegliandosi una mattina, Tim (Matthias Schweighöfer) e Olivia (Ruby O Fee) scoprono che il loro appartamento è completamente sigillato da un misterioso muro nero fatto di mattoni ipertecnologici. Nessuna via di fuga, nessuna uscita, nessuna spiegazione ne connessione con l’esterno. Solo i vicini, anch’essi imprigionati nei rispettivi appartamenti. E una tensione che cresce, non tanto per ciò che accade, ma per ciò che non può più accadere.
L’idea di partenza è intrigante: una giovane coppia in crisi scopre all’improvviso che il palazzo in cui vive è stato murato, letteralmente, da una barriera impenetrabile comparsa dal nulla. Intorno a loro, una manciata di condomini, tutti bloccati, isterici e pronti ad accusarsi a vicenda prima ancora di capire il perché. La tensione sale. La paranoia cresce. I cellulari smettono di funzionare. E poi, lentamente, lo spettatore comincia a controllare l’orologio.
Il regista Philip Koch non ci racconta un’apocalisse: ci racconta un’interruzione. Come se il mondo avesse premuto il tasto pausa su una relazione già in bilico. La premessa, degna dei migliori episodi di Black Mirror o delle architetture psicologiche di Cube, diventa qui strumento di esplorazione umana, quasi teatrale. Ciò che conta non è l’evento in sé, ma la reazione a quell’evento. Il muro è, sì, una prigione, ma anche una metafora perfetta: della coppia, della società, della dipendenza tecnologica, del bisogno ossessivo di controllo.
Matthias Schweighöfer interpreta il personaggio di Tim con una naturalezza che non cerca mai l’eroismo: è un uomo ordinario, spaventato, isterico, fragile. Ruby O. Fee è, invece, intensa, tagliente, vera. La coppia non si ama più da tempo, e il muro diventa un esperimento non del destino, ma dello sguardo del regista che sembra domandarsi: cosa resta di noi quando non c’è più il mondo a distrarci da noi stessi?
Un’occasione sprecata
Philip Koch gira le scene come se stesse osservando una scatola chiusa: la studia, ne ascolta i suoni, ne immagina l’interno. Si affida a una tensione silenziosa: niente esplosioni, niente creature spaventose, solo occhi stremati dall’angoscia e corridoi vuoti. Gli spazi sono orchestrati come gabbie emotive: le luci sono fredde, le inquadrature simmetriche. Il muro non è solo un ostacolo fisico: è simbolo di isolamento e depressione. Ma Brick ha un difetto di fondo: non sa che farsene della propria idea geniale. Il regista mette in scena un grande simbolo – il muro – ma poi si dimentica di costruirci attorno qualcosa che sia davvero disturbante. Tutto è perfetto. Ma alla fine, a furia di trattenere, il film implode. L’angoscia si fa costante e la suspense resta ferma al primo atto.
Il risultato è un film pieno di crepe, buchi di sceneggiatura e privo di senso logico. Ed è esattamente questo il suo limite: la scelta di non spingersi oltre. Brickprepara lo spettatore a un’esplosione emotiva che poi non esplode mai. Il finale – spiegato forse troppo o forse troppo poco – non riesce a restituire il carico filosofico del viaggio. Ma è un limite non strutturale: alla fine non tutti i muri hanno bisogno di crollare per avere senso.
«Brick ti incolla addosso una domanda. Se domani il mondo si chiudesse, saresti pronto a restarci? E con chi?»