Parigi, 29 settembre 1902
«Coutard è riuscito a parlare con Madame Bastian?»
Il Comandante Henri-Georges Clouzot, ritto sui suoi stivaloni, impettito nella sua divisa d’ordinanza, squadrava le espressioni del viso del suo ispettore, pronto a percepirne il frasario.
«Sì Capo, l’ho incontrata al Luxembourg»
«E allora?»
«Ha cambiato del tutto versione.»
«Non ha confermato il racconto di quell’imbecille di Henry?»
«No Signore.»
«No Signore cosa? Avanti Coutard, non faccia il suo solito teatro. Parli, forza.»
Dal panciotto, più grigio della fuliggine del vecchio cammino di rovere di palude che troneggiava addossato alla parete orientale dell’ufficio del Capo della Polizia di Parigi, al 36 del quai des Orfèvres, l’ispettore trasse un plico di colore azzurrino. Un sigillo di ceralacca, di cui si faceva fatica a individuarne l’effige, iconico nella sua fissità, ne custodiva il contenuto.
Con un gesto plateale lo poggiò sulla scrivania di Clouzot, indicandolo con l’indice ancora guantato.
«È la dichiarazione giurata che la Bastian ha fornito a quelli dell’Ufficio di Statistica il 15 ottobre 1894.»

«Il giorno dell’arresto di Dreyfus?»
«Sì, quello.»
«Quindi non ci sono più dubbi. Il borderau l’hanno costruito loro. Sandherr, Henry e compagnia bella. Sono sicuro che anche dopo l’avvento di Picquart, e la morte di Henry, qualcuno continua ad agire per fabbricare menzogne e la Bastian ne sa più di quello che vuol farci credere.»
L’orologio a pendolo dietro la scrivania del Comandante aveva appena battuto le 10.
«Bellont non è ancora tornato?»
«No Capo, ma dovrebbe essere qui a momenti»
La grande vetrata che affacciava l’ufficio in rue de Harlay portava all’interno le luci di una Parigi ancora sveglia.
«Allora Bellont è su Buronfosse, Invece su Hacquin, chi c’è?»
Henri Buronfosse e Pierre Hacquin, due perdigiorno dediti a lavoretti e alle volte reclutati come spazzacamini. Nulla di particolarmente grave se non fosse che la settimana prima, al quai des Orfèvres, era arrivata una soffiata. Anche loro, come madame Bastian, erano in contatto con elementi di estrema destra, antisemiti e antidreyfusardi della prima ora.
«Su Hacquin ci sono Garrel e Desplechin.»
Clouzot annuì in segno di approvazione.
«Sono sicuro che stanno preparando qualcosa. L’esercito di De Galliffet, che Dio ce ne scampi! Ecco l’eredità. Una nazione spaccata in due e un sacco di cialtroni intenti a pavoneggiarsi per le loro idee. E ci mancavano anche quei conards degli Apache.»
Un gruppo di giovani malavitosi di rue de Lappe, definiti dalle cronache di Dupin e Morris, si era messo al soldo di quella Destra reazionaria di cui il Comandante temeva qualche altro colpo di testa. Quella notte la realtà era pronta a decifrarne gli intenti.
Sull’uscio dell’ufficio comparve il brigadiere Lavoine.
«Capo, c’è Georges Méliès che chiede di lei. Si ricorda? L’attore di quel film su Dreyfus. Quest’anno è a l’Ideal. C’è andato mio cognato la settimana scorsa. Il viaggio sulla Luna, impressionante, Capo.»
«Va bene Lavoine, ho capito. Forza, lo faccia entrare.»
Di statura media, con una calvizie dominante e un paio di baffi quasi a manubrio, Méliès, trafelato, sfuggì ai salamelecchi di Lavoine e si parò davanti a Clouzot.
«Comandante, dovete intervenire! Stanotte, succede stanotte!»
«Monsieur Méliès, riprenda fiato. Con calma. Si accomodi.»
«Non c’è tempo Comandante. Dovete intervenire subito o perderemo un grand’uomo. Non c’è tempo da perdere le dico!»

Fuori era tornata la pioggia che nel pomeriggio, corsara, aveva invaso le vie della città mettendo fine a ogni progetto di un autunno dedito a miti proclami.
«Méliès apprezziamo la sua voglia di aiutarci, ma ora si sieda e ci racconti tutto dall’inizio»
«Ma non capisce? …»
Méliès non fece in tempo a terminare la frase che sulla soglia del bureau di Clouzot, sempre più affollato, comparve la figura dinoccolata, e precocemente canuta, di Desplechin. Anche lui aveva il fiatone. Anche lui aveva fatto le scale di corsa.
«Capo, c’è il brigadiere Desplechin.»
«Lo vedo Lavoine, Che aspetta? Lo faccia entrare»
Con l’uniforme imperlata dalla pioggia, che nel frattempo aveva aumentato la sua intensità, nella foga Desplechin quasi travolse la sedia nella quale si era accomodato Méliès.
«Commissario, è rue de Bruxelles! È lì che succede, ne sono sicuro!»
«È Zola!»
Urlando, Méliès era balzato di nuovo in piedi, con tale slancio da urtare duramente il volto del povero Desplechin, e si era precipitato sulla grande mappa di Parigi, affissa proprio nella parete prospicente l’ingresso dell’ufficio di Clouzot. Un oggetto unico, in grado di ravvivare un’inconsueta carta da parati, sprovvista di motivi floreali.
Desplechin, con una mano a tenersi il volto ancora dolorante, aveva confermato l’ipotesi di Méliès.
«Ci sono Buronfosse e Hacquin. Sono fermi poco lontano dal 36, l’abitazione di Zola. Stavo per dirvelo, Capo.»
«E Bellon? Che fine ha fatto?»
«È rimasto con Garrel e il tedesco,»
«Dieterle?»
«Sì, lui, Capo.»
William Dieterle arrivava dalla stessa città natale di Dreyfus, Mulhouse.
Caduta nelle mani dei prussiani, lui, di origini bavaresi, si era trasferito a Parigi per poi ben presto entrare in Polizia. Era un mastino, il migliore quando si trattava di pedinamenti e appostamenti.
«Va bene, ho sentito abbastanza. Lavoine raduna due squadre. Coutard e Deplechin con me. Forza, sbrighiamoci!»
Il maltempo aveva ulteriormente imbastito la sua trama trasformandosi in un vero e proprio temporale. I tuoni alimentavano il vociare di una ville Lumière ancora riottosa alla notte, mentre i fulmini ne illuminavano a giorno le figure animate d’uomini e cose.
Un paio di chilometri lanciati al galoppo, evitato qualche randagio, le tre carrozze, superata rue d’Amsterdam, comparvero presto all’imbocco di rue de Bruxelles.
Quella di testa, di Clouzot, tirò subito le redini. Un balzo e Lavoine era già con i piedi piantati sul selciato, viscido e ceruleo di pioggia e lampi.

«Che succede Lavoine?»
«Capo, è Abel!»
Un ragazzo, con in testa un lobbia, rubato a chissà chi e chiaramente troppo grande per lui, correva a perdifiato verso di loro.
«Monsieur Lavoine, monsieur Lavoine, sono sul tetto! Li ho visti bene, hanno anche una pistola!»
Il tredicenne Abel Gance era da qualche tempo diventato uno dei più validi e ascoltati informatori della Polizia di Parigi.
«Va bene Abel, togliti dalla strada, Ora ci pensiamo noi.»
Il riverbero della voce di Lavoine non aveva fatto ancora in tempo a rivaleggiare con il frastuono del temporale che un colpo d’arma da fuoco lo tagliò in due per poi infrangersi poco lontano dai piedi del ragazzo.
«Al riparo! Uomini armati sul tetto!»
Lavoine rinculava verso le altre carrozze mentre i suoi colleghi, compreso Clouzot, abbandonavano precipitosamente il posto in vettura per ripararsi dietro quelle imponenti sagome di legno e ferro.
Desplechin aveva tratto a sé Abel e l’aveva condotto al sicuro nel Café Napoléon alle loro spalle. Era ancora aperto e lo sparo aveva attirato alle vetrine molti dei suoi avventori. Qualcuno dei più coraggiosi aveva raggiunto l’esterno per godersi lo spettacolo.
«Una squadra sul tetto del 36, forza. Melville al comando. Gli altri ci coprono da qui. Desplechin, Lavoine e Coutard con me, proviamo a entrare dalla porta d’ingresso.»
Clouzot, impartiti gli ordini, rivoltella alla mano, seguito dai suoi fidati, più caracollando che correndo, aveva attraversato la strada per fermarsi davanti alla porta di casa Zola. Nonostante la stazza non indifferente e i cinquanta passati da un pezzo, il Comandante conservava ancora un’agilità non da poco. Retaggio forse degli anni giovanili persi in uno squadrone di cavalleria nell’accademia militare di Saint-Cyr.
Il fuoco di copertura era cessato, così come i colpi provenienti dal tetto. Il temporale era ritornato padrone della scena, mentre la via era ormai addobbata dalle luci che alle finestre accompagnavano gli spettatori sempre più numerosi. La porta dei Zola era chiusa e il bussare non aveva sortito esito alcuno.
«C’est la Police! Aprite!»
Neanche la voce possente di Clouzot sembrava avesse alcun potere su quell’imperturbabile sesamo.
«Dueudonné!»
Il Commissario si era rivolto al gruppo dei suoi agenti ancora al riparo dietro la seconda carrozza. Ne era spuntato un uomo dalla corporatura notevole, con un’altezza che sfiorava i due metri. In men che non si dica aveva raggiunto il suo Comandante.
«Buttala giù!» Gli ordinò subito Clouzot.
Dueudonné prese una breve rincorsa e caricò poggiando tutto il peso sulla spalla destra, per infrangersi, a mo’ di martello, contro il robusto ligneo.
Alla terza spallata la porta si aprì e il gruppo di poliziotti si ritrovò all’interno dell’abitazione.
«La servitù non c’è, ma forse non ci sono neanche gli Zola. Che facciamo Capo?»
Lavoine era rimasto sorpreso dal silenzio e dall’assenza di reazioni alla loro intrusione. La casa aveva un aspetto spettrale.
«La camera da letto. Forza, sbrighiamoci!»
Un presentimento, insistente e ossessivo, si era fatto rapidamente strada nella mente del Comandante. Il tetto, gli Apache, gli spazzacamini, tutto avevo preso posto in maniera sinistra concentrandosi su di un’unica terribile ipotesi: il monossido.
Attraversarono svelti l’ampio salone, setacciato da tappeti d’ogni foggia, e la breve rampa di scale che in pochi istanti li condusse alla stanza dei due coniugi. Coutard fu il primo a cercare di entrarci, ma anche quella porta era chiusa a chiave.
Clouzot non ebbe bisogno di chiamarlo di nuovo, Deudonné l’aveva preceduto. Stava già caricando con tutto il suo impeto quando Melville, con Dieterle e Bellon, fece il suo ingresso sulla scena.
«Capo, li abbiamo presi! Le finestre, presto, bisogna aprirle tutte! Hanno ostruito il camino!»
Mentre Coutard e gli altri uomini si adoperavano per lasciare ampio spazio all’aria della notte, Clouzot, Desplechin, Lavoine e Deudonné erano attorno al letto a baldacchino dei Zola.
«Monsieur? Monsieur Zola?»
Lo scrittore era riverso con le gambe parzialmente distese verso l’esterno, come se avesse tentato di alzarsi. La moglie Alexandrine non era con lui.
«Desplechin, dell’acqua presto!»
L’ispettore non perse tempo e si diresse verso la cucina mentre gli uomini di Melville giravano per casa alla ricerca della signora Zola.
«Forza, proviamo a sollevarlo.»
Clouzot e i suoi riuscirono a sistemare lo scrittore poggiandogli la schiena sulla testata del letto. Nel Comandante si faceva strada il timore di essere arrivato tardi.
«Respira meglio.»
Coutard s’era chinato su di lui e ne aveva squadrato le pieghe del viso, alla ricerca di un qualche buon auspicio. Zola restava privo di sensi, avvolto nella sua palandrana e in un angosciante torpore.
«Ecco l’acqua!»
Desplechin era tornato fornito di tutto punto, con vassoio, bicchiere e caraffa. In tempo per assistere all’ennesimo tentativo del suo Capo.
«Monsieur, monsieur, monsieur Zola!»
Come all’uscita di un incubo, stavolta lo scrittore rinvenne, con gli occhi sbarrati e incapace di proferire parola. Almeno per qualche istante.
«Prenda un sorso d’acqua. Beva, lentamente»
Clouzot gli mise tra le mani il bicchiere, con l’attenzione e la deferenza dovuta a un uomo che aveva sempre considerato un patriota e un maestro eccelso. Nel frattempo, Melville era tornato dalla sua ricerca al Napoléon.
«Capo, c’è qui il Dott Lorenzi.»
«Dottore, prego, Monsieur Zola viene di riprendersi proprio ora. Probabilmente ha respirato troppo monossido. Abbiamo appena arrestato degli uomini che avevano ostruito la canna fumaria.»
Clouzot cedette il suo posto a Lorenzi e, ormai rasserenato, si sedette su una delle poltroncine stile impero che componevano l’arredo della camera da letto. Di lì a poco Coutard gli comunicò che anche Madame Alexandrine si stava riprendendo. L’avevano trovata svenuta in bagno, ma con la finestra aperta. Il peggio era ormai passato.
«Capo, potremmo dire che stanotte la Francia ha salvato la Francia.»
«Ha proprio ragione Coutard. All’ultimo respiro, ma ce l’abbiamo fatta.»