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Ischia Film Festival

‘Spiaggia di vetro’: quando il dolore diventa casa

Un film che sussurra, ma lascia il segno

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Spiaggia di vetro, firmato dal regista americano Will Geiger, è la pellicola presentata per quest’edizione dell’Ischia Film Festival. In uscita nei cinema italiani dal 30 giugno, è un racconto che si insinua sottopelle. Appartiene a una categoria preziosa: è un film che sceglie un passo lento, parole misurate, e silenzio come spazio fertile per l’emozione. Non pretende, resta, come le maree silenziose che erodono la pietra.

Il ritorno forzato e la resa al passato

Salvo è un uomo che ha smesso di credere nel futuro. Ex pescatore siciliano, si è ritirato tra le montagne calabresi per fuggire da un lutto che ha segnato in modo indelebile la sua esistenza. La malattia del padre lo costringe a rimettere piede nel villaggio natale, sul litorale da cui era scappato. Ma ad accoglierlo non è il ricordo, bensì una realtà trasformata: nella casa di famiglia vivono Binta, una donna africana, e suo figlio Moussa. Una presenza inaspettata, che Salvo percepisce come un’intrusione. Il ritorno a casa, lungi dall’essere una riconciliazione, diventa uno scontro con le crepe irrisolte del passato.

Un legame che nasce nel silenzio che si fa cura

La convivenza tra Salvo, Binta e Moussa è inizialmente tesa, rarefatta, carica di diffidenza e sospetti. Ma in questa distanza, giorno dopo giorno, affiora qualcosa di autentico. Il rapporto tra Salvo e Moussa si sviluppa lentamente, come certe amicizie inattese che si costruiscono senza parole. Insieme restaurano la vecchia barca del padre, e in quell’atto semplice, artigianale, prende forma un legame nuovo. Non è solo la barca a rinascere: anche Salvo, pur senza rendersene conto, inizia a sciogliere le proprie rigidità. Il bambino diventa per lui uno specchio, ma anche una possibilità: quella di tornare a sentire, a essere presente, a prendersi cura.

Una regia che osserva e lascia respirare

La regia di Will Geiger si distingue per una delicatezza rara. Rinuncia a ogni forma di didascalismo per abbracciare uno sguardo contemplativo, rispettoso, che lascia spazio ai luoghi, ai tempi lenti, ai non detti. La macchina da presa non forza, ma accompagna. Le inquadrature si soffermano sui volti, sui dettagli, sulle pause. I paesaggi del Sud, tra il mare che si intravede e le colline spoglie, diventano paesaggi interiori. È un cinema dell’essenziale, che non cerca di impressionare ma di raccontare con onestà. In questa scelta stilistica si coglie una regia matura, capace di ascoltare prima ancora di raccontare.

La colonna sonora: la musica delle emozioni trattenute

La colonna sonora è un elemento prezioso e sapientemente dosato. Le musiche, minimali, profonde, evocative, si muovono sottotraccia, come un respiro che accompagna senza invadere. Si avvertono echi di corde, lievi dissonanze, atmosfere sospese che sembrano emergere direttamente dal vissuto dei personaggi. È una musica che non commenta, ma partecipa. Nei momenti di maggiore silenzio, si insinua come un sussurro, una memoria sonora. Chi è attento ai suoni, e chi vive la musica come parte integrante del racconto, troverà in questa colonna sonora una voce nascosta, capace di amplificare l’intensità emotiva del film con straordinaria finezza.

Un cast che interpreta il dolore con misura

Le interpretazioni sono tutte giocate sul filo della sottrazione, ma proprio per questo potenti. Claudio Castrogiovanni offre un ritratto complesso e convincente di un uomo chiuso nel proprio dolore, incapace di comunicare se non attraverso gesti ruvidi e reticenze. Il giovane Souleyman Diakite, nei panni di Moussa, è sorprendente per autenticità e presenza scenica: comunica con gli occhi, con i silenzi, con la vulnerabilità tipica di chi ha già conosciuto l’abbandono. Daniela Scattolin, intensa e misurata, costruisce una Binta silenziosa ma radicata, portatrice di una verità che ribalta le certezze di Salvo. Anche le brevi apparizioni di Peppino Mazzotta e Corrado Fortuna aggiungono spessore a un racconto corale che non dimentica nessuno.

Il perdono come percorso, non come punto d’arrivo

Spiaggia di vetro è un film che interroga profondamente il concetto di perdono. Ma non lo fa con leggerezza: ci mostra il perdono come un processo faticoso, spesso doloroso, che non cancella ma rielabora. È anche un film sull’eredità invisibile che ci portiamo dentro, quella emotiva, affettiva, relazionale, e su quanto sia difficile liberarsene o riconoscerla. Nel dialogo tra Salvo e Binta si incrociano due storie di resistenza e perdita. E proprio lì, nell’incontro tra vite così lontane, si apre la possibilità della riconciliazione, non tanto con l’altro, ma con sé stessi.

Tornare per riscoprire chi siamo

Il ritorno di Salvo non è solo geografico, ma profondamente esistenziale. Il viaggio che compie è un ritorno dentro sé stesso, verso ciò da cui era fuggito. Il dolore, la paternità mancata, l’amore perduto, la memoria del padre. Solo affrontando tutto questo, senza sconti, potrà ritrovare la propria umanità. Spiaggia di vetro ci ricorda che la guarigione non passa dall’oblio, ma dalla capacità di abitare le ferite. E che a volte, ciò che pensavamo definitivamente spezzato, come i frammenti di vetro levigati dal mare sembrano cristalli, può rivelarsi più bello, più vero, proprio per le sue imperfezioni.

Spiaggia di vetro