Il film di Matteo Gamannossi e Riccardo Cocumarolo, Il mare breve, proiettato alla 23° edizione dell’Ischia Film Festival, è un’opera meravigliosa ed emozionante. Il documentario racconta la vita e il mondo in cui vive il protagonista, il guardiano del faro di Akraberg, sulla punta meridionale di Suðuroy, nelle Isole Faroe.
Il mare breve: il faro delle emozioni
Il film è pura emozione e cattura l’attenzione attraverso movimenti di macchina volutamente instabili, come a voler ricreare la sensazione di essere in mare aperto su un’imbarcazione, e un gioco tra luce e ombra, che fa percepire il faro come qualcosa di estraneo al nostro mondo. Come se appartenesse a un livello di percezione diverso. Il guardiano del faro è un uomo sulla sessantina ormai in pensione che ci racconta, nei primi secondi del film, che un tempo quel faro serviva a naufraghi e navi come punto di riferimento nella notte, ma che da diverso tempo non si vedano più navi o naufraghi. Come detto dal guardiano stesso:
Vi chiederete a che cosa serva questo faro. Serve a me.
Il guardiano racconta inoltre le grandi difficoltà nel comunicare con il mondo esterno: I tentativi di mettersi in contatto con sua figlia sono spesso vani per via della zona vicino al mare e il vento, forte, che soffia incessantemente. Si riesce a percepire non solo la solitudine, ma l’essenza stessa di essa. E occuparsi del faro non è solo una questione di noia di un uomo in pensione che deve trovare un modo per passare il tempo, ma si tratta di una vera e propria ragione di vita.
Il faro è passato di generazione in generazione fino ad arrivare alla protagonista, che racconta anche una parte della sua vita, in cui il padre la portava vicino al faro e accendeva delle stelle filanti per farle esprimere dei desideri. E anche quando, quei desideri, non li esprimeva, guardava il faro da lontano perché con esso il sole è lì anche di notte.
Analisi tecnica
In un paesaggio scolpito dal vento e dalla memoria, Il mare breve rifugge ogni fissità. La macchina da presa è costantemente in movimento, come a voler inseguire un pensiero che non si lascia afferrare, in una tensione silenziosa che si nutre dell’inquietudine del protagonista: un uomo solitario, ancorato a un faro che non è solo luogo, ma identità, genealogia, resistenza.
La luce, appunto, gioca un ruolo centrale. Non si limita a illuminare, ma plasma, nasconde, rivela. Il contrasto tra pieno sole e ombra profonda genera un dialogo visivo che riflette la dialettica interiore dell’uomo: ogni controluce, ogni bagliore riflesso sul mare, sembra parlare di chi non c’è più. “Il sole è lì anche di notte” non è una battuta poetica, ma la dichiarazione di un mondo simbolico in cui la luce è vita, memoria, messaggio.
Il montaggio è rarefatto, contemplativo e i silenzi dominano. L’uomo non parla quasi mai direttamente: le sue parole arrivano come voci portate dal vento, lontane ma nitide. Solo quando riceve la visita della figlia e del nipote lo vediamo aprirsi davvero. Sono frammenti emotivi che squarciano la solitudine, amplificati da un uso misurato ma potentissimo del sonoro.
La fotografia richiama inevitabilmente i lavori di Robert Eggers: paesaggi crudi, luce naturale, senso dell’epoca e del tempo perduto. Ma qui la malinconia ha un calore inatteso. Il faro, ereditato da padre e nonno, non è una prigione, ma una preghiera accesa nel buio.
In conclusione
Il mare breve è un’opera di straordinaria delicatezza, che usa il linguaggio tecnico del cinema per raccontare ciò che le parole non dicono: l’amore, la presenza, la luce che rimane anche quando nessuno la guarda.