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Ischia Film Festival

‘A man fell’ – Come esistere può significare resistere

Un viaggio del regista Giovanni Lorusso nella profonda oscurità in cui si muove la popolazione palestinese in Libano

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A Man Fell

Nativi in terra straniera

Selezionato per la sezione Location Negata dell’Ischia Film Festival 2025, il lungometraggio A Man Fell nasce da uno dei viaggi del regista in Libano, fino alla regione di Sabra. Qui  scopre un ospedale abbandonato diventato avamposto di un nucleo di palestinesi insediatisi lì da decenni. Si tratta di eredi di rifugiati scappati durante la guerra di Palestina del 1948, ma che a oggi continuano l’eterna diaspora dei condannati. Sono fantasmi, apolidi privi di un’identità, di una casa, di un lavoro e del diritto di possedere e pronunciare il proprio nome.

L’inferno ha 11 piani

Il Gaza Building è un ex ospedale gestito dall’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) nella regione di Sabra (Beirut), a nord del campo di Shatila. La struttura, che offriva cure gratuite agli ultimi, nel corso del massacro di Sabra, Shatila e della “Guerra dei Campi”, venne smantellato dall’occupazione siriana. Ciò che ne rimane è uno scheletro di cemento divenuto casa per generazioni di rifugiati palestinesi, siriani in fuga dalla guerra e migranti carichi di miseria. Uno stabile instabile, distrutto dai bombardamenti e dal disprezzo di politiche distratte dalla legge della guerra.

La storia attraverso le storie

Ciascuno degli 11 piani dell’edificio racconta quello che rimane della storia di anime svuotate, dove ognuno coltiva il proprio diritto all’essenziale, peculiare e personale. Corpi dannati che gravitano in gironi infernali che hanno bruciato negli occhi anche la speranza del paradiso.

Il nostro Caronte ha il volto di Arafat Yasser Al Ali un bambino di 11 anni, che, come età richiede, è attratto dall’ignoto e dal proibito. Il suo gioco sta nel demolire parti dell’edificio già distrutte, spiare i vicini e, da degno esploratore, insieme al suo amico Muhammad Ramzi Zayed, approdare in quel seminterrato sconosciuto, saturo dell’asfissia del degrado e della morte. Intanto tutti gli altri occupanti dell’edificio impegnano il tempo a discutere della presunta morte di un uomo caduto dal quarto piano in circostanze sconosciute.

I personaggi

La pellicola è la cucitura delle storie personali dei disagiati, dove ognuno dà un ritmo diverso a un testo  che qualcun altro ha già scritto per loro. Conosceremo Bubu, un uomo errante alla continua ricerca delle sue carte da gioco. Nour, un’adolescente cresciuta troppo in fretta, che tra le pieghe del suo essere sorella-madre, decora quelle pareti lacerate, rendendole tele su cui liberare il proprio impulso artistico. Zaheya, una donna che coltiva i suoi occhi con la luce che irradia il suo amore per i fiori.

Storie di passati ignorati che sgorgano in un unico canale. In quel palazzo tornano a parlare, dimostrando come anche ciò che apparentemente sembra superfluo diventi essenziale per una vita prosciugata dell’identità.

La luce che non passa

Nel documentario non solo gli occupanti ricoprono il ruolo da protagonista. Ciascun elemento in scena ha una propria parte. Lo stesso edificio assume i contorni di una nuova patria, ma allo stesso tempo di una prigione, di un limite invalicabile, così come la luce che manifesta il suo carattere beffardo. L’oscurità degli spazi è troppo densa per accoglierla. In questo luogo privo di filtri, dove le finestre sono quadrati vuoti ritagliati nelle pareti, la luce si ferma, non penetra all’interno, diventando solo un’accecante spazio lontano, faro verso una meta da non poter vedere e bramare.
La prospettiva è univoca, la visione è esclusivamente da dentro verso l’esterno. Non sappiamo cosa ci sia fuori da quell’epicentro. Dirigendo lo sguardo verso la luce si offuscano i profili della città, affinché rimanga proibita. Una luce che rischierebbe di alimentare la speranza dell’altro, dell’alternativa, dell’evasione, e dell’eversione.  Condizioni umane che devono annegare nell’abisso del disumano.

Nel documentario i toni scuri fagocitano tutto, anche gli occhi che non hanno più un riflesso e i corpi che diventano solo dei profili. Tutte le azioni avvengono in quel quadrilatero, non c’è uno sfogo spaziale tantomeno temporale, le giornate sono scandite solo dalla melodia delle preghiere diffuse dalle moschee.

Le riprese

Giovanni Lorusso ha conosciuto questi luoghi grazie a Yasser Kamal Al Ali, un “ospite” del luogo, che poi con lui condividerà la produzione e la sceneggiatura. Nonostante l’attrezzatura da ripresa venga ridotta all’essenziale, riesce a trasformare un mucchio di vite marginali e afone in un’esplosione comunicativa con un forte spessore umano e cinematografico.

L’arrivo della troupe era stato preceduto dalla recente notizia della caduta di un uomo dal quarto piano, che stava impegnando le giornate e l’attenzione degli occupanti. Un lampo “mediatico” che il regista ha deciso di trasformare nei leitmotiv del plot.  Il silenzio dei movimenti viene scandito da musiche vibranti, nascoste nelle giornate che non conoscono l’inizio del giorno e dell’esistenza. La massima ascesa spirituale si raggiunge con quella cantilena onirica con cui si richiama alla preghiera. È la memoria di una cultura e dell’innalzamento dello spirito in un contesto che anestetizza anche il dolore immateriale. Dal sacro al profano, con le “terrene” tracce radiofoniche del gruppo Katibe 5, una band di rapper rifugiati palestinesi. Gli attimi finali sono accompagnati dalla melodia Das Rheingold, WWV 86A – Vorspiel, di Wagner, un tonfo emotivo che assorbe tutto: uomini, vite, storie e idee. Per farne un concetto univoco e diffonderne il peso oltre il muro del suono, del buio e della storia.

A man fell

  • Anno: 2024
  • Durata: 70 minuti
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Italia, Libano
  • Regia: Giovanni C. Lorusso