Nel mondo c’erano due forze l’una di fronte all’altra, le democrazie e il nazismo. Ora, le forze democratiche erano in uno stato di completa disorganizzazione… si trattava dunque di dire ai democratici che era assolutamente necessario unirsi, lasciando da parte le divergenze per concentrarsi su un solo nemico. Sono parole del regista Alfred Hitchcock rispondendo ad una domanda di Francois Truffaut nella sua monumentale intervista nel libro Il cinema secondo Hitchcock.
Parole che servono a presentare Lifeboat (I prigionieri dell’oceano) del 1944, ambientato sul finire della seconda guerra mondiale. Parole che riflettono in modo inquietante (anche) i nostri tempi.
Non so se sir Alfred Hitchcock mirava mai alla universalità dei suoi soggetti ma per Lifeboat, che viene presentato a 80 anni dalla sua uscita, all’interno della XXXIX edizione del Cinema Ritrovato di Bologna, è un’occasione per ricordare che tutte le guerre sono uguali e che i conflitti non hanno vincitori ma solo vittime.
Otto persone si rifugiano a bordo di una scialuppa di salvataggio dopo che la nave è stata affondata da un sottomarino tedesco. Reazioni e crisi di ognuno di loro: c’è una indomabile giornalista ed anche un tedesco spietato e crudele.
Ovviamente pensare che un film di Hitchcock sia una mera pellicola di guerra e anti militarista è riduttivo. Anche se ha già affrontato i conflitti mondiali in paio di pellicole come Il prigioniero di Amsterdam e Sabotaggio anche in questo I prigionieri dell’oceano non rinuncia alla sua poetica che lo porta a riflettere sui problemi metafisici dell’essere umano. A come la guerra riduce gli uomini ad entità pronti a tutto pur di sopravvivere.
Lo sguardo del regista, attraverso la sua macchina da presa, si focalizza in maniera claustrofobica, in fondo siamo su una barca all’interno di un non luogo come l’oceano, su un gruppo di persone, identificandosi con il loro di sguardo. Sguardo di questo microcosmo impaurito dagli orrori della guerra con unica eccezione quello della giornalista interpretata da una grande attrice teatrale come Tallulah Bankhead. Armata di tutti gli armamentari della sua professione e della sua classe sociale altolocata, dalla macchina da scrivere, il visone, fino ai gioielli di diamanti affronta i pericoli con un cinismo e una disarmante nonchalance unici. E dovrà essere denudata da tutto questo per riuscire a capire fino a dove l’essere umano, l’unico elemento che interessa al regista, è capace ad arrivare. Infatti le brave persone linciano il capitano nazista che li ha traditi, ma il loro senso di colpa, come quello del gesuita Hitchcock, lo porteranno fino all’eternità.
Tour de force tecnico eccezionale, come spesso in Hitchcock, questo Lifeboat non diventa mai esercizio di stile gratuito. Anzi è uno di quei film in cui lo stile definisce il contenuto e vice versa. Hitchcock realizza un thriller da camera senza azione seguendo i personaggi, inquadrando le loro divisioni, riflettendo sulla fragile democrazia che si instaura all’interno della scialuppa e approfondendo fino allo spasimo le divisioni di classe. Senza paura di retorica l’unico che si salva è il nero Canada Lee e a discapito della propaganda il marinaio tedesco che viene salvato almeno ha una ideologia da difendere mentre il resto del gruppo naviga nel qualunquismo umano.
Tutto ciò in soli novantasei minuti e uno spazio talmente ristretto a risultare claustrofobico in mare aperto! Ma spazio c’e’ anche per il solito cameo hitchcockiano. Il regista compare genialmente su una pagina di giornale in una pubblicità di una cura dimagrante con il classico “prima e dopo”.
La parte del leone (o meglio della leonessa) a Tallulah Bankhead ma anche il resto del gruppo non è da meno: da Walter Slezak a Hume Cronyn e da Mary Anderson a William Bendix sono tutti perfetti.