“Mona Achache, regista che con ‘Il riccio’ fa il suo esordio nel lungometraggio, per tratteggiare con una certa nettezza la visione lucida e severa che del mondo (adulto) ha la piccola protagonista della sua storia”.
Nel 1946 Cesare Zavattini scrisse un articolo in cui paragonava il genere umano appena uscito dalla guerra a dei pesci rossi che “battono le loro bocche rotonde sul vetro con la speranza di trovare la via che li condurrà al mare. Battono infinite volte in un’ora e ogni volta, durante quel breve tragitto che superano con un solo colpo di pinna, rinascono le loro speranze”.
È curioso notare come tale metafora sia stata scelta tanti anni dopo, e presumibilmente ignorando l’illustre predecessore, da Mona Achache, regista che con ‘Il riccio’ fa il suo esordio nel lungometraggio, per tratteggiare con una certa nettezza la visione lucida e severa che del mondo (adulto) ha la piccola protagonista della sua storia.
Tratto da ‘L’eleganza del riccio’, bestseller francese di Muriel Barbery, il film racconta dell’incrociarsi casuale ma non meno fatale di anime insofferenti alle apparenze, rare mine vaganti all’interno dell’ordinato conformismo borghese d’un palazzo per famiglie ricche e apparentemente felici al centro di Parigi.
Si tratta di Renée, una portinaia solitaria e vinta dal dover e dal saper stare solo al “suo posto”, di Paloma, una bambina incapace di sopportar le ipocrisie familiari a tal punto da sceglier l’incomunicabilità e progettar il suicidio, e di Kakuro Ozu, ricco ed enigmatico signore giapponese, colui il quale, da nuovo inquilino (l’altro che arriva a scuotere una situazione altrimenti cristallizzata), innescherà il movimento di trasformazione e rinascita delle prime due, coinvolgendole nella possibilità di una vita diversa da quella fin allora sempre subita più che desiderata.
Nell’alternarsi del punto di vista narrativo, che si sposta tra lo sguardo quasi da antropologa (e per niente ingenua!) di Paloma, intenta a registrar in forma diaristica e con una sua piccola cinepresa i dissesti psichici dei membri della sua famiglia, e la coralità cui la regista si affida per rappresentare i saliscendi della vita condominiale, siamo condotti in un realismo traballante e sfasato, quello di un mondo che la Achache tenta di adeguare ai sogni e agli incubi dei sui personaggi.
Storia fatta di recinti mentali e di immaginazioni recluse, ben tradotte nella scelta d’ambientar il tutto in ambienti interni e chiusi, spazialmente e temporalmente non direttamente riconducibili ad un periodo preciso, privi come sono di strumenti di connessione con l’esterno (né tv, né pc, né cellulari, né giornali), ‘Il riccio’ trova nel palazzo borghese (paradossalmente frutto di un lavoro in studio) un ulteriore e decisivo protagonista, con il suo ascensore e con i suoi piani gerarchicamente organizzati, con chi sta in alto, chi in basso, chi si blocca in uno spazio sospeso, con quel viavai di ‘intenzioni’ e proposte, che si fermano sulla soglia d’ingresso o che viceversa irrompono le mura dei pregiudizi di classe e promettono una svolta relazionale.
C’è chi riceve e chi è ricevuto. Chi è irricevibile (poiché rigido nel suo ruolo) e chi invece può essere accolto (perché disponibile a farsi travolgere dalle conseguenze della curiosità).
E infine c’è chi cerca un nascondiglio (è questa la ‘stanza tutta per sé’ di cui parlava Virginia Woolf?) e lo trova dove meno lo si avrebbe immaginato: chi sembra esteriormente un riccio può celare la nobiltà d’animo d’un essere ‘terribilmente elegante’.
Salvatore Insana
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