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Stop e-Motion Days

‘Playing God’: il bisogno di essere amati e il dolore del rifiuto

Matteo Burani firma una parabola visiva sull’ossessione per la perfezione e il bisogno di attenzione, tra citazioni caravaggesche e body horror.

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Creare è sempre stato un atto di potere. Ma cosa succede quando chi crea smette di guardare? Quando abbandona, evita, dimentica? Playing God di Matteo Burani e Arianna Gheller esplora proprio questo, attraverso una poetica feroce, in grado di trasformare la creazione artistica in un atto crudele e disperato. Un cortometraggio presentato in anteprima al primo festival italiano dedicato al cinema in stop-motion: gli Stop e-Motion Days.

In un atelier fatto di ombre, luci caravaggesche e silenzi, un artista dà forma a delle piccole creature realizzate in argilla. Le plasma, le perfeziona, e poi le abbandona. Le sue mani, visibili in scena, assumono un’aura divina, ricordandoci che ogni gesto creativo è anche un atto di separazione. Una volta concluse, le sculture divengono rifiuto. E, come ogni essere rifiutato, iniziano a desiderare.

“La scultura, simbolo del creato, non cerca l’indipendenza o l’allontanamento, ma desidera ardentemente rimanere con il suo creatore.”

Inizia così un cortocircuito narrativo ed emotivo che si avvicina alle ossessioni più infantili e primitive: il bisogno di essere guardati, amati e soprattutto riconosciuti dal proprio “genitore”.

Una parabola del nostro tempo: l’attenzione come ossessione

L’allegoria è fin troppo attuale. Nella società dell’immagine e della performance, il desiderio di attenzione ha superato il bisogno di relazioni autentiche. Proprio come accade in Sick of Myself di Kristoffer Borgli, dove la protagonista è disposta a rinunciare al suo viso pur di diventare visibile, anche la creatura di Playing God si trasforma, si deforma, si contorce per reclamare uno sguardo.

È un grido silenzioso e disperato, che trova eco in quelle “vecchie creazioni” abbandonate nell’atelier. Figure deformi, in costante attesa. Un pubblico muto che giudica, testimone del fallimento e del ciclo eterno della creazione e del rifiuto.

“Coloro che assistono alla creazione […] rappresentano una sorta di pubblico inesorabile e testimone perpetuo del fallimento e della disillusione.”

Nel film non c’è un Dio nel senso teologico. C’è piuttosto un artista umano, accecato dalla sua stessa sete di perfezione, incapace di amare ciò che ha fatto.

“Il punto centrale è che il ‘Dio’ del film è uno scultore accecato dalla sua ossessione per la perfezione.”

Una visione profondamente contemporanea, che rilegge la figura del creatore come colui che produce per poi scrollarsi di dosso ogni responsabilità emotiva. Un sistema che ricorda molto da vicino quello dello spettacolo, del capitalismo culturale, dove anche gli esseri umani diventano prodotti da consumare e abbandonare.

Body horror come specchio dell’identità frantumata

Tutto questo prende forma attraverso il linguaggio del body horror, un genere che negli ultimi anni sta attraversando una nuova stagione di fioritura, divenendo un potente veicolo per raccontare l’identità, la trasformazione e il dolore.

A sancirlo è stata la presenza al Festival di Cannes 2024 di The Substance di Coralie Fargeat, vincitore del premio per la miglior sceneggiatura: un film che porta il genere ai suoi estremi visivi e concettuali, utilizzando la mutazione fisica come metafora del desiderio di accettazione, del disgusto verso il proprio corpo e della costruzione del sé.

In questa stessa linea si inserisce anche The Ugly Stepsister, atteso per il 2025, che segnerà il debutto alla regia di Emilie Blichfeldt. Ancora una volta, il corpo femminile come campo di battaglia, di visibilità, di metamorfosi imposta e subita. Il body horror, da sottogenere marginale, è diventato una forma raffinata e disturbante di esplorazione psicologica e sociale.

Playing God si nutre di questi codici visivi e li trasforma in qualcosa di profondamente personale, quasi intimo. La materia prima è l’argilla, che diventa la pelle stessa delle creature. Le mani del creatore diventano dunque le sue uniche possibilità di esistere. Ma al contempo il suo unico tormento.

Playing God

Studio Croma: l’animazione italiana che osa

Matteo Burani è tra i fondatori dello Studio Croma, una delle realtà più interessanti nel panorama dell’animazione italiana contemporanea. Uno spazio creativo dove l’animazione non è vista unicamente come un genere “per bambini”, ma come un linguaggio sperimentale capace di affrontare temi complessi.

“Ogni progetto che intraprendiamo è un’opportunità per sperimentare, crescere e spingere i limiti di ciò che l’animazione può rappresentare.”

In questo senso, Playing God è un manifesto: nove minuti intensi, dal montaggio serrato e dalla colonna sonora firmata Pierdanio Forni, che richiama la dodecafonia di Berio, evocando un senso di disagio ed ambiguità.

Una parabola visiva sul rifiuto e la bellezza dell’imperfezione

Alla fine, la vera tragedia non è la morte, ma l’indifferenza. L’essere creati per poi essere dimenticati. In questo senso, Playing God è una storia universale, che parla di ogni figlio ignorato, ogni amante abbandonato, ogni opera che non ha trovato uno sguardo. Ma soprattutto ci ricorda che, forse, è proprio nell’imperfezione e nella materia informe che si cela la nostra umanità più autentica.

Playing God

  • Anno: 2024
  • Durata: 9 minuti
  • Distribuzione: Sayonara Films
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Matteo Burani