Breath, documentario d’esordio di Ilaria Congiu – regista di origini sarde, nata in Senegal – presentato in anteprima al MedFilm Festival 2024, arriva nelle sale italiane dal 5 maggio. Breath, è prodotto dalla Mediterraneo Cinematografica, Propaganda Productions e distribuito dalla Mescalito Film , il film è patrocinato da Legambiente Italia e Extinction Rebellion Italia.
Ilaria Congiu è nata in Senegal dove suo padre dirige un’azienda con la quale esporta pesce congelato. È cresciuta tra il subbuglio dell’impresa e le spiagge della costa atlantica del Senegal. Con il passare del tempo però percepisce un cambiamento, lento e inesorabile. Il mare si sta spopolando, suo padre si lamenta della mancanza di pesce, che inevitabilmente si ripercuote nell’azienda, e di conseguenza le dinamiche familiari ne risentono. Si trasferisce in Italia con sua madre finché, una nuova consapevolezza di sé e delle sue origini, nonché una serie di riflessioni più che mai attuali sul cambiamento climatico e l’etica della sostenibilità, la riportano in Senegal.
“I soldi non si possono mangiare”
A un centinaio di chilometri a sud di Dakar, nel piccolo villaggio di pescatori di Joal-Fadiouth, la regista e Ibrahima – amico di famiglia e dipendente dell’azienda di suo padre – discutono dello spopolamento dell’oceano di fronte a un piatto di thieboudienne. La pietanza, piatto nazionale del Senegal, è tradizionalmente cucinata con la cernia. A loro viene però servita una thieboudienne a base di pesce angelo, meno nobile della cernia, a causa delle conseguenze del sovrasfruttamento dei mari. Negli anni Ottanta sulle spiagge di Joal erano presenti appena sette piroghe, imbarcazioni tipiche per la pesca tradizionale locale. Si tratta di piccole barche a remi di legno colorato, in cui prevalgono i colori della bandiera senegalese.
Quando lo stato senegalese ha incoraggiato la pesca, per permettere alle popolazioni che abitano nelle zone più interne del paese di compensare il loro apporto in proteine e avere una dieta più equilibrata, ha avuto inizio la “pesca economica”. Ibrahima spiega l’evoluzione di questo processo: “Il valore del pesce è praticamente triplicato. Non solo abbiamo ingrandito piroghe e reti, ma il Senegal ha cominciato a rilasciare licenze di pesca a qualsiasi tipo di imbarcazione. È allora che si sono insediate le aziende di congelazione e lavorazione. Per avere sempre più pesce, e quindi sempre più soldi, nessuno si è imposto dei limiti”.
Attualmente al mercato del pesce di Dakar sono in vendita pesci di importazione, così che la popolazione senegalese non ha quasi più accesso al pesce locale, ma è costretta ad acquistarlo da altri paesi. “Se continuiamo così dovremo accettare la triste realtà che moriremo insieme al nostro pesce, perché siamo noi a sterminarlo, siamo noi che lo sovrasfruttiamo e noi che lo uccidiamo per guadagnare soldi. Ma i soldi non si possono mangiare”.

L’imprescindibile rapporto tra il mare e le comunità di pescatori
Alcune sequenze di Breath riportano frammenti di lezioni tenute da Silvio Greco, biologo marino e docente di Produzioni Agroalimentari presso il corso di Scienze Gastronomiche dell’Università di Pollenzo. Alla sensibilizzazione in ambito gastronomico, sulle conseguenze dovute al sovrasfruttamento delle specie marine, in particolare di quelle legate al commercio del cosiddetto “pesce bistecca” – pesce spada, tonno, cernia – si affrontano temi quali il cambiamento climatico e le misure di contenimento che si possono attuare su piccola scala.
Non solo il Senegal, ma anche piccole realtà locali che praticano la pesca artigianale sotto costa – entro dodici miglia dalla costa – risentono del sovrasfruttamento e dell’inquinamento dei mari. Breath segue la giornata lavorativa di un gruppo di pescatori siciliani, che affronta quotidianamente le difficoltà e le paure intrinseche al mestiere. Il lavoro sui piccoli pescherecci, al di là dei metodi di pesca applicati che spesso contraddicono le norme a tutela della sostenibilità ambientale, è animato da un legame emotivo e culturale con il mestiere. Alcune sequenze da Lu tempu di li pisci spata, cortometraggio documentario del 1955 di Vittorio De Seta che ritrae il rito della pesca del pesce spada con la feluca, sono una testimonianza efficace che rimanda all’imprescindibile rapporto tra il mare e le comunità di pescatori.

“Tuna cage”, gabbia di trasferimento per tonni
L’etica della sostenibilità
A tutela del mare sono attive organizzazioni di volontari come Sea Shepherd Italia. La regista, che ha trascorso tre mesi a bordo di una di queste navi pattuglia, testimonia la realtà ancora poco nota delle “tuna cages”. Si tratta di enormi gabbie – della dimensione di circa la metà di un campo da calcio – che, in questo caso, trasportano tonni dalla Calabria a Malta, in un viaggio lungo quattrocento miglia percorse in un mese. I tonni vengono tenuti all’ingrasso all’interno di questi allevamenti mobili, per poi essere messi sul mercato. La pesca del tonno in Italia è regolamentata da un quantitativo massimo consentito di circa 3.500 tonnellate all’anno, conteso tra una ventina di grandi compagnie pescherecce. Questo sistema di ripartizione lascia poco o nulla ai piccoli pescatori, che si ritrovano spesso senza quote disponibili, oppure con quantità irrisorie che rendono l’attività poco sostenibile sotto più punti di vista.
Breath, senza una rinuncia alla componente emotiva del racconto, intreccia found footage, filmati d’archivio e riprese subacquee. Se inquadrato nell’ottica del cinema intimista, è possibile ridimensionare alcune carenze di ordine narrativo, che talvolta impediscono di contestualizzare correttamente alcune sequenze del documentario. Così come il “desiderio d’infanzia di essere pescatori” si scontra con la prospettiva del presente – in cui etica del lavoro e sostenibilità ambientale si accordano con difficoltà ai più recenti processi di sviluppo –, le domande a cui la regista dà voce nella sequenza finale rispecchiano il conflitto tra la volontà di agire di fronte a un “mare che sta bruciando”, e la consapevolezza di poterlo fare entro i confini, pur circoscritti, del raggio d’azione individuale.
