“In un mondo ove il massimo obiettivo è il successo dell’individuo essere madre è una contraddizione”.
È con questa frase che Costanza Tejo Roa, giovanissima regista cilena, presenta il suo film La mutante.
Un documentario che è atto di resistenza materiale e ideologico. Un’ opera prima -davvero- punk, in anteprima europea al Pordenone Docs Fest.

Madre. Matriarcato. Mutante.
Costanza ha 23 anni quando rimane incinta. La sua carriera da direttrice della fotografia è appena iniziata quando scopre di aspettare suo figlio Teo. Un evento che la ritroverà intrappolata dentro casa e lontana dal suo vero amore: il cinema.
Incinta in catalano si dice “embarazada”. È uno dei falsi amici che si apprendono per scherzo quando ci si affaccia a una nuova lingua vicina e allo stesso tempo lontanissima. La radice di “embarazo” è “impedimento”, “ostacolo”.
Distante anni luce da una rappresentazione stereotipica della maternità La mutante ne amplifica le contraddizioni, le storture sociali e i malesseri intrinsechi ad una nuova posizione sociale acquisita che, se da un lato viene osannata, dall’altro viene ostracizzata e reclusa.
In Storia di un matrimonio, il personaggio interpretato da Lara Dern si apre in un monologo diventato ormai tanto celebre da perdere anche la sua connessione con il film di provenienza. Nel testo si amplifica il ricatto morale legato alla genitorialità femminile. La madre è Maria, Santa, Vergine, e immacolata. Il padre non c’è, egli è ancora libero di vivere, di essere individuo indipendente e comunque rimanere Dio. La madre invece diventa oggetto, elettrodomestico pronto a sfornare vita, incastrato nella ritualità casalinga del caregiver, distanziato dalla società e dal mondo del lavoro.
Costanza Tejo però ci ricorda che Maria è anche madre single, in una Galilea governata dagli uomini che non è a noi così lontana.
Il Principe Azzurro
Nello spazio angusto della casa della regista il matriarcato di madri, nonne e sorelle la difende e la protegge in questa dura lotta ove Costanza diventa cineasta, mutante, figlia, sorella, madre. Da questa imposizione multiforme il suo corpo si trasforma e il suo seno si gonfia del peso unico che la donna riceve nel lavoro teoricamente comunitario di portare avanti la specie.
Il cinema però rimane accanto a lei e in lei, come il vero amore sa fare: nell’immaginario cinematografico e nella mente fuoriesce anch’esso mutato, coperto da animazioni punk colorate, ma tangibile. È dentro di lei quando cambia la focale, quando cerca l’inquadratura, nelle riprese ossessive di immagini di copertura.
È in lei nel modo di fare cinema viscerale, intuitivo, diretto.
Un amore e una conoscenza reciproca che si muove nello sviluppo del montaggio intorno alla persona di Costanza stessa: all’inizio deforme, frammentata, mai davvero completamente in scena, la protagonista-regista verso l’arrivo di suo figlio si apre alla camera, il film prende respiro, entra la luce nella stanza del futuro figlio. La mutante diventa persona e non più piedi che spuntano dal pancione gravido.
Il parto non è idilliaco, il finale non è un lieto fine posticcio ma è un urlo desideroso di cambiamento e di nuovi strumenti per ottenerlo.
Essere un film PUNK
La mutante è stato realizzato in 9 mesi di riprese e 9 anni di produzione. Un autentico atto di resistenza. Resistenza per essere girato da una giovane incinta, resistenza contro un mondo del lavoro che esclude la maternità come una malattia. Resistenza di produrre, riprendere e montare con qualsiasi mezzo a disposizione e ovviamente senza soldi, sempre.
Costanza Tejo gira, monta, interpreta e produce un lavoro di cura verso il film stesso, fatto di notte, appena suo figlio andava a dormire. Il documentario è un progetto di cinema del reale autentico, racconto di vere persone, che hanno realmente preso il ruolo di se stesse per mostrare una verità individuale e collettiva allo stesso tempo. In esso la commedia diventa luogo primario per raccogliere passaggi delicati e questioni così dolorose che potrebbero bruciare la pelle.
Nel farlo La mutante ci interroga sul nostro rapporto con le immagini, quelle che creiamo nella nostra mente e quelle nella macchina da presa, nella speranza di creare una realtà tangibile e empatica, una prospettiva orizzontale ove all’inizio e alla fine vi è una comunità, il matriarcato.
Insieme facciamo paura.
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