La Citta Proibita segna il ritorno in attività di Gabriele Mainetti, quattro anni dopo l’uscita del suo precedente Freaks Out. Un progetto sicuramente ambizioso quello del regista romano, che cerca di introdurre nel cinema italiano l’apparentemente incompatibile genere del Wuxia Pian.
Intenti non facili sostenuti da una produzione di tutto rispetto (Wildside, Piperfilm e la casa di produzione del regista Goon Films), insieme a un cast di romanacci tutti d’un pezzo (tra loro Marco Giallini, Luca Zingaretti e Sabrina Ferilli).
Il film uscirà nelle sale italiane il 13 Marzo, sempre distribuito da PiperFilm. E ora si aprono le danze, e che il combattimento abbia inizio!
La trama de La Città Proibita

Marcello (Enrico Borello), il figlio del proprietario di un ristorante in difficoltà, si allea con una ragazza straniera, Mei (Yaxi Liu), alla ricerca di sua sorella. Insieme, dovranno combattere fianco a fianco contro i membri più spietati della malavita cino-romana per placare la propria sete di vendetta.
Il Terzo (Film) dell’Operazione Drago

Appare scontato a dirsi, ma Gabriele Mainetti è un regista da osservare con un certo riguardo. Non tanto per una pluriennale carriera costellata da infinite perle filmiche; d’altronde parliamo di un cineasta al terzo film. Di Mainetti colpisce un iter lavorativo e una forma mentis registica e produttiva abbastanza rari nel quadro generale attuale dell’industria cinematografica italiana.
Rari per un suo sguardo innovativo e inedito rispetto al marasma di sedicenti registi che pullulano gli schermi? No, per nulla, più per il suo stoicismo e per l’ attaccatura a una convinzione, ahinoi, sempre più fumosa: che il cinema di genere possa ancora brillare nel nostro Paese.
Desiderio di molti, ma sostenuto da pochi, anzi pochissimi. Fra questi, ovviamente c’è Mainetti. Prima un cinecomic, poi un freakshow alla Tod Browning ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, ep ora un film di arti marziali in salsa fusion ambientato a Piazza Vittorio Emanuele.
É facile rimanere stupiti dalle scelte di Mainetti, meno dalla sua propositività nel ridare sfogo e spazio al cinema che ci reso leggende nel Mondo e che ora fatica a farsi notare (parlando anche di botteghino).
Il furore della Cina colpisce ancora

La vera prova del nove che La Città Proibita sa di dover superare è scontata ma anche molto spietata. Cercare di maneggiare le tecniche registiche di un genere con quasi sessant’anni di storia è impresa non da poco per un regista abituato sì all’azione, ma mai davvero messo alla prova come in questo caso.
Tra l’immensità di stili e riferimenti da seguire, da quello più elegante e costruito alla The Grandmaster di Wong Kar-Wai alle antitesi parodistiche e comiche in stile Kung Fu Hustle di Stephen Chow, Mainetti sceglie la via dell’azione pura, con grandi coreografie, idee niente male e nient’altro che grandi colpi e scazzottate.
Con un occhio anche all’imperante nuovo cinema d’azione americano alla John Wick, il regista non perde mai il controllo di scene ad alto impatto difficili da realizzare e l’immersiva fotografia di Paolo Carnera non sfigura mai rispetto agli alti standard del cinema internazionale-
In poche parole, i combattimenti di Kung Fu de La Città Proibita sono ottimi. E già questo spingerebbe molti scettici a recarsi in sala seduta stante.
Una storia d’amore e di Kung Fu

Grandi tecniche di Kung Fu eseguite, però, su una pedana traballante, quasi rotta. É strano trovare il nome di Stefano Bises e Davide Serino, sceneggiatori di grandi opere odierne (Gomorra – La Serie, Esterno Notte) nei riconoscimenti di una sceneggiatura che di riuscito ha ben poco.
Una ferrea volontà produttiva di un regista che non trova coesione in una storia ricca di falle narrative, un umorismo altalenante e tanti elementi e temi lasciati qua e là che non vengono mai ripresi (uno su tutti, la politica del figlio unico abolita in Cina solo nel 2013).
Un racconto che, nella sua difficoltà nel porsi tra il serio e il faceto con un impronta più tarantiniana (Kill Bill) che altro, si dimentica di affiancare un filo logico e narrativo alla spirale di vendetta alla Old Boy che la protagonista cerca di seguire. Ciononostante, la testardaggine produttiva di Mainetti e il valore della sua mise en scène spiccano sempre sopra tutto.
Quindi sì, abbiamo svolte di racconto di poco senso, alcuni personaggi inconcludenti se non addirittura inutili, un discorso sull’evoluzione di una Roma sempre più splendidamente contaminata mai portato fino in fondo e un cast che vive di ruoli quasi inediti che non è sempre in parte (vedi una Sabrina Ferilli esasperata ed esasperante).
Ma forse, per una volta, è giusto chiudere un occhio (anche due) su queste cose, ricordando quanto il nostro cinema abbia un bisogno quasi essenziale di artisti figli e prosecutori di questo cinema di genere, che ci facciano sognare con lo sguardo di un bambino incollato al televisore e ci diano speranza con l’anima di un adulto che osserva speranzoso l’avvenire filmico.