Per inquadrare la forte specificità del Trieste Film Festival, ci aiuti a tracciarne un po’ la storia?
Il Trieste Film Festival nasce nel 1989, anzi, in realtà, nel 1987 in una specie di edizione zero, dall’iniziativa di un gruppo di appassionati di cinema che facevano parte della Cappella Underground, uno dei più mitici cineclub italiani, fondato nel 1968, altro anno storicamente significativo. Trieste, geograficamente, è sempre stata una città strategica, perché era l’ultimo avamposto occidentale, prima del Grande Est. Stiamo parlando di anni in cui c’era ancora la Cortina di ferro (il muro di Berlino è crollato nel novembre 1989). Il Trieste Film Festival ha seguito la storia, le storie, di questa parte d’Europa. Ha fotografato, come con tante istantanee, l’evolversi di quelle società. Ha seguito il cambiamento del loro cinema che, negli anni ‘80/’90, aveva un segno molto più locale, storie più folcloristiche, era pieno di realismo magico, con dei tratti distintivi che lo rendevano facilmente riconoscibile. Per questi registi, raccontare una storia legata al proprio Paese, voleva dire usare metafore, perché subivano una pesantissima censura. Una caratteristica forte del cinema dell’Europa orientale è proprio l’utilizzo di questo tipo di linguaggio per veicolare messaggi provocatori, dissacranti o, semplicemente, politici, in modo velato dal lirismo delle metafore visive. Negli anni, tutto questo è cambiato e il Trieste Film Festival è stato testimone di questo mutamento. La nuova Europa orientale sta diventando sempre più simile a quella occidentale, da un punto di vista culturale, politico e anche cinematografico. In questi Paesi sono nate molte nuove opportunità, anche a livello di co-produzioni internazionali. Questo ha cambiato lo scenario.
In quella parte d’Europa c’è stata, negli anni ’90, anche una sanguinosa guerra etnica.
Il Trieste Film Festival è stato testimone, quasi in presa diretta, di quel terribile conflitto. Eravamo l’unico Festival che ospitava serbi e croati, che qui dialogavano, non si facevano la guerra, mostravano i loro film. C’era un clima di pace, di scambio. Adesso, con la guerra in Ucraina, ci sono molti registi di quel Paese e iniziative per sostenere il loro cinema. Durante il conflitto del Nagorno-Karabakh, abbiamo ospitato registi armeni e azeri. Il Trieste Film Festival è una specie di punto di riferimento per nazioni che, da un lato, assomigliano sempre più all’Occidente, dall’altro, però, sono luoghi in cui spesso ci sono ancora conflitti, eredità di anni non facili. Il Trieste Film Festival è una finestra sul cambiamento di questi Paesi. Una trasformazione anche geografica, perché molte di queste nazioni hanno mutato i confini. Ci sono Stati che non esistono più, come la Cecoslovacchia o la Jugoslavia. Noi non abbiamo paura d’indagare quello che accade, raccontandolo senza censure.

L’ampiezza del programma e delle sezioni di questa 36a edizione del Trieste Film Festival è impressionante. Quanto è stato complicato metterlo insieme?
Il programma è il risultato di un lavoro di squadra. Il Trieste Film Festival ha tanti amici, professionisti che ci danno idee, consigli. E poi anche parecchie collaborazioni con associazioni culturali, cineteche, istituti di cultura. Durante l’anno viaggio molto, vado nei Festival più piccoli dell’Europa dell’Est, dove si scoprono persone e film interessanti. I Festival non sono creature artificiali, ma il risultato di rapporti umani. A volte nascono così delle sinergie molto naturali, quasi non cercate.
Una delle sezioni più particolari e di ricerca del Trieste Film Festival è Wild Roses, ogni anno dedicata a registe di una nazione dell’Europa orientale. Quest’anno la Serbia. Che specificità di sguardo avete trovato?
Quest’anno la sezione è stata curata dal regista e produttore Stefan Ivančič (anche membro del comitato di selezione del Festival di Locarno), molto calato nella cultura cinematografica serba. Il bouquet di Wild Roses è composto da autrici giovani, tra i 25 e i 45 anni, con molte opere prime. Quello che ci ha colpito è che il loro sguardo va sempre indietro agli anni ’90. Anche quando i film sono ambientati nell’oggi, lo sguardo va a quella decade, da cui sembra non si possa fuggire. Sono soprattutto i serbi a raccontarla. Questa è una peculiarità. Se torniamo all’ex Jugoslavia, gli sloveni sono forse il popolo meno balcanico di tutti, quelli che in assoluto nel loro cinema meno menzionano quella guerra. Probabilmente perché si sono salvati con l’indipendenza del 1991. I croati hanno una posizione ambigua, per cui il conflitto balcanico rientra relativamente nella loro produzione cinematografica. Nel cinema serbo, invece, da quella guerra non si scappa, anche quando non se ne parla in maniera diretta. C’è sempre la ricostruzione di una memoria, di una coscienza collettiva, faticosamente messa insieme a partire da quell’evento traumatico.
Negli anni ’90, molte di queste registe erano bambine, quindi ricompongono quella storia attraverso ricordi e memorie che, tra l’altro, non sono mai condivise. Memorie individuali, familiari, private, collettive. Molte sono registe della diaspora, non abitano più in Serbia, però le loro storie sono sempre collegate all’ex Jugoslavia, neanche solo Serbia, proprio l’ex Jugoslavia. È una specie di lutto, di requiem, per un Paese che non esiste più. Fanno i conti con quello che c’è stato in quegli anni. Sono registe che hanno uno sguardo di profondità storica, ma raccontato, spesso, attraverso vicende familiari, di genitori e figli, in quegli anni terribili. È lo sguardo di donne moderne, che vivono l’oggi, ma che ritornano a un passato molto recente che non è ancora passato.

Radu Jude
A proposito di spirito di ricerca, un’altra sezione è dedicata al cinema sperimentale romeno, un altro tassello di sguardi fuori dall’ordinario che offre il Trieste Film Festival.
È una sezione nata dalla collaborazione con un giovane critico rumeno, Călin Boto, che mi ha proposto un piccolo programma di cinema sperimentale che fa il paio con i due film del connazionale Radu Jude che proiettiamo quest’anno, Otto cartoline da Utopia e Sleep#2. La sezione Cinema Sperimentale Romeno ha un programma molto singolare, frutto di una ricerca che Călin Boto ha fatto negli archivi di Bucarest. Quello che ha scoperto è un cinema di grande libertà, anche se parlare di libertà, negli anni ‘80 del regime Ceausescu, so che sembra un po’ paradossale. In realtà, c’è stata una grande sperimentazione in quel periodo, di cui si è parlato pochissimo. Il curatore si è soffermato sul rapporto tra natura e città. Molti registi della Nouvelle Vague romena si sono concentrati sul racconto della città. Una città mostro, dal traffico terribile, una città anche molto dark, come può sembrare Bucarest. La contrapposizione è con la vita di campagna della provincia più rurale, dove la natura prende il sopravvento. Un punto di vista affrontato da Călin Boto in maniera molto originale.
Un approccio più specificamente storico darà la retrospettiva 1945. La guerra è finita?, che mi sembra, sin dal titolo, provocatoria, considerata la situazione attuale. Cosa ci troveremo?
Francesco Pitassio, con cui collaboriamo da anni, mi ha proposto, vista la ricorrenza degli ottant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, una retrospettiva che fa il punto sulla fine di quel conflitto, ma, giustamente, lui nel titolo mette una domanda. Vedremo film degli anni ‘40, quindi girati a caldo, a ridosso dell’evento. Pellicole europee, ma anche americane, fiction, documentari e cinegiornali. Una retrospettiva che racconta non solo la fine del conflitto o la liberazione dei campi di concentramento, ma anche il grande spostarsi dei confini, perché la nuova Europa cambia e da lì cominciano tutti i nuovi equilibri geopolitici: la guerra fredda, una difficilissima ricostruzione in Germania ecc. Quindi è la fine di una guerra, ma l’inizio di un altro periodo, che porterà al boom economico e anche ad altri conflitti, guerre più silenziose, magari. Lo sguardo sulla storia è molto presente, è uno dei leitmotiv del Trieste Film Festival. Il programma è sterminato, ci sono più di 120 titoli, però questo è uno dei legami profondi tra le sezioni.

Un’altra novità di quest’anno è la sezione Visioni Queer. Quale stato dei diritti civili e della possibilità di esprimersi senza censura viene fuori dal cinema dell’Europa orientale?
Quest’anno abbiamo trovato doveroso un omaggio al cinema LGBTQ+ in Europa orientale. Da anni ce ne occupiamo, in realtà. Nel programma ci sono sempre stati almeno uno o due titoli su questa tematica, però la produzione in questo senso era molto limitata. Per censure morali molto forti, per una certa pruderie, a raccontare questo tipo di storie. Ultimamente, invece, abbiamo visto una produzione importante in tutti i Paesi, anche laddove i diritti civili sono messi ancora molto male. Il film kosovaro di Ilir Hasanaj, Mentre guardavo in alto, riuscivo a vedere me stesso in basso (2022), per esempio, un titolo faro della sezione, racconta, con molta delicatezza, storie personali di gay kosovari, sempre alla ricerca di luoghi sicuri dove poter vivere, lavorare ecc. e, per la prima volta, fa vedere i protagonisti di un documentario senza volti coperti o voce modificata, come sempre accadeva prima. Questo è importante perché c’è una presa di coscienza politica, nel senso che è una comunità che ha un ruolo nella società e lo rivendica. Anche negli altri film della sezione, il tema di crearsi una comunità è preponderante, soprattutto laddove le persone omosessuali sono in pericolo, dove i diritti civili sono scarsi, dove non c’è una legge che li protegga nel loro essere se stessi in una società che non li accetta per quello che sono. Nella comunità reinventano nuovi modi di stare assieme e prendersi cura l’uno dell’altro. In questa piccola retrospettiva, a cura di Giuseppe Gariazzo, faremo vedere anche i tre cortometraggi d’esordio della georgiana Elene Naveriani, che sottolineano la nascita di una grande regista, in cui già s’intravedono molti dei temi che svilupperà più avanti nei suoi lungometraggi, Wet Sand e Blackbird Blackbird Blackberry.

Elene Naveriani
La sezione più corposa del Trieste Film Festival è costituita dai titoli in concorso, suddivisi in lungometraggi, documentari e cortometraggi. Una selezione che permette di avere il polso dello stato dell’arte del cinema dell’Europa orientale.
Lo stato dell’arte assomiglia a quello degli altri Paesi europei, con il cinema del reale che sta prendendo sempre più piede. Anche nel cinema di fiction ci sono spesso degli elementi di documentario. È un dato interessante che si spiega col fatto che in certi Paesi è molto difficile arrivare ai finanziamenti, quindi a volte con camera a spalla e amici si girano film quasi a budget zero. Una sintesi di tutto questo è Fekete Pont di Bálint Szimler, un ritratto molto realistico del sistema educativo ungherese, girato in bilico tra fiction e documentario. Il documentario entra nella fiction per motivi, a volte, anche economici, però poi diventa stile, grammatica, linguaggio. Questi registi non scappano dalla realtà, ma cercano d’incorporarla nel loro fare cinema. D’altra parte, i documentari diventano sempre più raffinati e numerosi. Nell’Europa orientale ce n’è una grandissima produzione, con tante donne dietro la macchina da presa. Molti sono fatti in maniera narrativa simile alla fiction, ma non mancano quelli di montaggio, con materiali d’archivio: Treni di Maciej J. Drygas e Un anno nella vita di un Paese di Tomasz Wolski, per esempio, raccontano di una Polonia occupata prima dai nazisti e poi dai sovietici.
Credi esista ancora una specificità nel racconto di quest’area geografica?
Partendo dal fatto che ogni Paese è diverso, considerando che la nostra area geografica di riferimento è enorme, dal Mar Baltico al Mediterraneo, passando da Est a Ovest, direi che, in generale, c’è una forte presenza della realtà. Sono film glocal, hanno dei valori universali, ma molto radicati nella cultura dei Paesi da cui provengono e questo per me è un bene. Cinematograficamente, hanno ben presente la lezione dei grandi maestri che li hanno preceduti, mentre nel mondo occidentale questo succede sempre meno.

Fekete Pont
Cosa credi desterà maggiore interesse e sorpresa nel pubblico di questa 36a edizione del Trieste Film Festival?
Sicuramente il ritorno a Trieste di un grandissimo regista come Sergei Loznitsa, con l’anteprima italiana di The Invasion, un documentario splendido, il suo migliore dopo Majdan. Un’opera che riprende il suo stile cronachistico, preciso, obiettivo. Un film struggente e compassionevole, che sta a fianco degli ucraini. Una risposta perfetta alla sua esclusione dall’Accademia del cinema ucraino per il suo cosmopolitismo. Sergei Loznitsa è un autore apolide, nato in Bielorussia, cresciuto in Ucraina, da anni vive tra Germania e Olanda. Questo cosmopolitismo in periodo di guerra non è tollerato, devi schierarti e in maniera quasi nazionalista. Poi anch’io scoprirò verso dove andrà la curiosità del nostro pubblico, che trova nel programma il suo percorso. Il successo del Trieste Film Festival sta proprio nel pubblico, con cui c’è un vero e proprio rapporto d’amore. Spettatori giovani, attenti, aperti, a cui lanciamo delle sfide con il programma, sempre raccolte. È il pubblico che decreta il buon esito di un Festival.
