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Cortometraggi

‘Alba Blu’ di Emanuela Mascherini – Esiste morte senza cadavere?

Straziante e fallace, Emanuela Mascherini edifica un ponte che conduce ad una liberazione dalle paure e dai turbamenti, per cui il cammino, però, è piuttosto un incubo, dalle tinte blu.

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A volte non ci si rende conto che si sta trattenendo il fiato finché non ci si trova in uno spazio in cui poter respirare di nuovo, finalmente. Ma, come si fa a tornare al luogo al quale si è appartenuti in un tempo lontano, se non si ha consapevolezza di averlo abbandonato e disabitato? È un interrogativo che Emanuela Mascherini, regista di Alba Blu, presentato al Roma Creative Contest 2024 Fuori Concorso e ospitato dallo Spazio Scena, pone con il suo cortometraggio.

Alba Blu è un’opera diafana

Dove cessa di esistere la realtà e dove invece comincia il sogno, o più propriamente, l’incubo? Molteplici sono gli interrogativi, come questo, che il cortometraggio fa insorgere.

Secondo dopo secondo, il corpo della protagonista si direbbe sempre più diafano. La sua testa e il suo animo si mettono a nudo, ci lasciano entrare, forzando la serratura, nei meandri di una psiche segnata dall’amarezza della vita, dal semplice essere donna a non avere proprietà di sé. In uno sguardo sull’inconscio, alla scoperta di ciò che governa la mente quando si smette di vivere e si sopravvive soltanto.

Il terrore della violenza sulle donne

È raccontato, non nell’atto, bensì nelle sue conseguenze, un tema abusato e al contempo fin troppo marginalizzato, come quello della violenza sulle donne, a cui Emanuela Mascherini dà tinte blu. Con una sfumatura fredda e tinta a thriller grazie a un’ottima fotografia che aiuta a colorare questo dramma inenarrabile, in un interrogatorio crudo ma non autolesionista sugli strascichi della violenza che oltrepassa il confine fisico e ferisce l’io interiore più solenne.

Memorie di una pelle ferita

Diretto ed interpretato dalla stessa autrice, Alba Blu, con una metafora che piega il linguaggio audiovisivo ad un’esperienza immersiva, esplica il complicato concetto di esestraneità. Un’estraneità dalle proprie movenze, dal proprio struggimento, ma, soprattutto, dalla beatitudine di giorni migliori. I confini sono così sfocati nell’immaginario della protagonista che vittima e carnefice si confondono nella sua coscienza e memoria. Una memoria così fedele al dolore che anche la morsa della razionalità fa a brandelli i ricordi, come una persona sola che ne ha, dentro di sé, diverse, ma con lo stesso volto. In una versione di sé colpevole del male dell’altra.

Scaffali, libri impolverati, vetrate alte e lunghi corridoi di una biblioteca, è un’ambientazione comune che conosciamo bene eppure sembra tanto sconosciuta agli occhi della protagonista in preda alla fuga. Dalle prime sequenze infatti  il pericolo è palpabile: lo sguardo di quell’uomo, le conversazioni vane volte a dissimulare, il passo deciso di lui e il tremolio di lei, tutto è talmente plausibile che anche lo spettatore si perde nell’incertezza tra il vero e il falso.

La cruda arte della veridicità

Poche sono le battute eppure il rumore della dignità calpestata è assordante. Il personaggio femminile si concede alla telecamera ansimante, con i ritmi scanditi di un respiro soffocato e affannato che risuonano nel blues di dolore. Vi è un découpage di riprese e scene che rende potente la costruzione narrativa con l’ausilio del formato 4:3, che, in maniera agghiacciante, sorregge l’autenticità nella finzione. E lo spettatore spia e rimane intrappolato con lei in una mente claustrofobica fatta di senso di colpa e timore. 

E in un corpo che la tradisce: sorride quando arriva all’esasperazione e si accascia quando vorrebbe correre, tra labbra serrate e lunghi silenzi, palpebre pesanti che si socchiudono con dissenso e grida d’aiuto ammutolite all’angolo della bocca.

Chi è il cattivo nel racconto di Alba Blu?

La protagonista è prigioniera, in trappola nella sua stessa fisicità. La carne è una gabbia per la psiche: cerca di combattere il nemico ma fatica a trovarlo, perché questo, infame, si nasconde in lei. 

Per quasi 15 minuti assistiamo a questa lotta: lei contro lui, lei contro se stessa. Ma loro, chi sono davvero?

Dei senza nome. Nessuno dei personaggi ha un nome, forse per lasciare che il pubblico si immedesimi, o forse perché la stessa protagonista non riesce più a riconoscersi, talmente è persa in un lago sanguinoso di sofferenza. Con un corpo che non è mai mostrato deturpato, ma in cui lo squarcio delle sue ferite è vivido. In questo mar rosso, riuscirà a fuggire dai demoni che la inseguono?

Una battaglia contro i suoi demoni

Lui, è interpretato da Simone Faucci, inizialmente troppo uomo, troppo moro, troppo alto e massiccio per non imputarlo del peccato originale. E ogni sguardo a lei è una lama. Eppure, quando ci si spoglia della compassione e la storia progredisce, ci si accorge che forse, sì, i suoi panni sono sporchi ma non di crimini da lui commessi. E, allora, chi rappresenta?

Cupo come ossidiana, pian piano i suoi occhi divengono vitrei e misericordiosi. Forse come personificazione di ogni supplizio e turbamento, dell’odio verso se stessi e dell’autoflagellazione. O forse una raffigurazione della libertà che non si ha ancora forza di accogliere. Il proprio perdono, l’addio al cordoglio, l’amore ed una mano d’aiuto che non si è pronti a stringere. O, forse, ancora, sarà il messia volto a indicarle la strada verso la salvezza.

Casa, scale e bende: iconografia e messaggi nascosti

La simbologia, in Alba Blu, ne caratterizza la cifra stilistica e ne è la sua vertebra portante. Emanuela Mascherini compie un atto arguto associando a spazi differenti uno stato d’animo singolare, e a parti della scenografia significati opposti.

Ricorrente è l’immagine di lei in una casa apparentemente vuota, una dimora dalle geometrie ben pronunciate per quanto spigolose. Sarà proprio il cambio di ambientazione, abbandonando i tavoli della biblioteca, a fare da cornice al caos mentale e l’instabilità emotiva documentati, dando segnale allo spettatore di essere ospiti indesiderati nella psiche della protagonista. Qui, con un montaggio che raccoglie frammenti di inquadrature per cogliere gli oggetti e l’allestimento della stanza, incubatrice di ogni più intima nevrosi, la retorica dà i suoi frutti. 

La casa, solitamente espressione di sicurezza, calore, rifugio, dell’abitare il mondo a testa alta, nel cortometraggio si trasforma invece in una prigione. I ricordi poco nitidi e le cicatrici aperte bussano alla porta nelle sembianze di quel misterioso lui. Tutto è chiuso, eppure, sembra che lei sia spaventata dalla sua stessa casa, e dal rimanerci da sola: terrorizzata all’idea di rimanere in solitudine con i propri pensieri che vagano e tornano, sempre, a quel giorno nefando, a quelle mani.

La stanza è un vuoto semantico

Non c’è verità da definire, e la regista non cercherà mai di farlo. Archi spazio-temporali si sovrastano senza indicare cosa fu e cosa non fu. E lo stesso Alba Blu è un immaginario onirico a metà fra corpo e anima, tra realtà e fantasia.

E poi una rampa di scale. In preda alla fuga, da lui o da quello che ne rimane nella sua mente, lei si affretta a salire per scampare al mostro, rimanendo intrappolata, però, nella tana. La casa la inganna: le serrature sono sigillate per impedire al lupo cattivo di entrare ma, paradossalmente, la principessa dai lunghi capelli biondi non può fuggire né essere salvata. 

Ma c’è un’altra scalinata che, invece, la porterà all’espiazione di ogni pena. Non più timorosa ma con passo deciso, salirà gradino dopo gradino e finalmente affronterà il suo lui, il suo demone interiore. Perché, del resto, anche l’eternità e il paradiso hanno dei cancelli, con un varco che l’amor proprio deve saper superare.

Quella stanza apparentemente vuota è anche palcoscenico di una pièce imperante di questa drammaturgia e di una composizione visiva idiosincratica e nobile. In cui, al centro, c’è lei, accasciata a terra come una salma sepolta da metri e metri di garza, che, anziché medicare ferite e comprimere il dolore, opprimono caviglie, polsi e collo con una stretta tanto offensiva da togliere il fiato. Eppure lei si palesa in stato di aponia, anestetizzata al dolore.

L’interludio perfetto per il terzo atto

La sceneggiatura è un inno funebre all’inquietudine e iniquità: la collera è sua amica ma rimane una composizione sacra. Una preghiera che invoca i giorni perduti e la possibilità di lasciare che le donne vittime di violenza possano rinascere nei giorni a venire, battezzate nelle acque di lacrime versate troppo a lungo. Alba Blu, film di Emanuela Mascherini, testimonia la dissociazione che si subisce quando l’inconscio s’intreccia con la logica, quando il corpo vive ed è la mente a smettere di farlo. 

Per l’intero film osserviamo la protagonista immergersi in un pozzo senza fine alla ricerca delle parti di sé ormai perdute. E, nel terzo atto, riuscirà a respirare di nuovo? Riuscirà ad attraversare quel fiume torbido di angoscia e toccare la terraferma o rimarrà in apnea?

Alba Blu

  • Anno: 2024
  • Durata: 15:43 minuti
  • Distribuzione: Esen Studios
  • Genere: Cortometraggio
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Emanuela Mascherini

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