Les barbares di July Delpy è stato presentato, nella sezione fuori concorso, alla 42ª edizione del Torino Film Festival.
I profughi non sono tutti uguali
Nel paesino bretone di Paimpol il consiglio comunale ha votato all’unanimità (con qualche mal di pancia) la decisione di accogliere una famiglia di rifugiati ucraini. Tuttavia, al posto dei profughi ucraini, viene assegnata alla cittadina una famiglia di profughi siriani sfuggiti alla guerra nel loro paese.
Si tratta della famiglia Fayad, composta dall’architetto Marwan (Ziad Bakri), da sua moglie graphic designer Luna (Dalia Naous), dai figli Dina e Waël, dal padre di Marwan, lo scrittore di poesie Hassan (Fares Helou) e da Alma (Rita Hayek), la sorella medico di Marwan, rimasta mutilata a una gamba sotto i bombardamenti.
Ovviamente, non tutti a Paimpol sono felici di questo cambio di rotta, perché si sa, non tutti i rifugiati sono uguali e, ovviamente, i siriani non sono paragonabili agli ucraini.
Ma tant’è, per la famiglia Fayad inizia un processo di ambientamento e integrazione costantemente ostacolato da alcuni personaggi del paese, uno su tutti Hervé (Laurent Lafitte), l’idraulico del paese, razzista e violento.
Così, nonostante la buona volontà del sindaco (Jean-Charles Clichet) e l’impegno da parte della maestra Joëlle (la stessa Julie Delpy) e della sua amica Anne (Sandrine Kiberlain), per i siriani non sarà facile farsi accettare dagli abitanti del posto, con gli attriti e gli atteggiamenti ostili che aumentano.
Una commedia che affronta temi drammatici con la leggerezza della commedia
Con Les barbaresJulie Delpy confeziona una commedia suddivisa in cinque capitoli, che mette alla berlina un certo modo di pensare della provincia francese (ma l’azione potrebbe essere, senza problemi, spostata da noi in Italia). Un misto di razzismo, meschinità e luoghi comuni da un lato, dall’altro grandi slanci di solidarietà.
Lo fa con una leggerezza che rende il film assai godibile, che fa pensare senza essere pedante e che ci regala uno sprazzo di umanità in mezzo a tanta ottusità mentale. Senza, per altro, risparmiarci tutto il dramma che la guerra – ogni guerra – porta con sé.
Un film che ci conferma che il razzismo è solo una manifestazione di profonda ignoranza, dettata esclusivamente da una irrazionale paura di qualcosa che non capiamo.
Il direttore artistico Giulio Base racconta a Taxidrivers il suo Festival
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