Inserito nella rassegna dedicata a Marlon Brando per il centenario, Don Juan de Marco – Maestro d’amore (Don Juan De Marco, 1995) di Jeremy Leven è un piacevole recupero cinefilo. Una pellicola alquanto anomala nel panorama cinematografico di quei lontani anni Novanta. Più che Brando, però, il centro del film è il fascinoso Johnny Depp.
Una dramedy romantica non proprio compatta. Che conquista per la bravura del protagonista, a quel tempo in ruoli sempre diversificati e problematici; nelle schermaglie recitative tra Depp e Brando; e per quella soffusa emotività che sa sprigionare il mitomane personaggio nella ricerca di un proprio equilibrio affettivo.
Don Juan De Marco, la trama
John Arnold De Marco (Johnny Depp) è un seducente giovane che si crede Don Juan. Sebbene sia riuscito a conquistare una donna, si arrampica su un cornicione e minaccia di suicidarsi. Arriva in soccorso lo psichiatra Jack Mickler (Marlon Brando), che per conversare con lui si spaccia per il nobile Don Octavio.
Mickler rimane affascinato da questo giovane, e durante la degenza si mette a studiare la mitomania che affligge questo ragazzo. John Arnold, durante le sedute analitiche, gli racconta la sua vita e le sue esperienze. Incantato da quanto narra, lo psichiatra, che sta vivendo una relazione in stallo con la moglie Marilyn (Faye Dunaway), lentamente comincia a ritrovare vigore sentimentale.
Tra realtà e fantasia, la melanconica figura di John Arnold De Marco
Di questo piccolo film, che fu prodotto da Francis Ford Coppola, si rimane soprattutto ammaliati da Johnny Depp. Non soltanto per la sua bellezza, e a quel tempo in cima alle classifiche degli attori più sexy, ma per la capacità e la volontà di impersonare personaggi problematici. Figure di bei ragazzi con problemi esistenziali.
Tra il 1990 e il 1995, ha impersonato personaggi arrischiati. Il solitario freaks in Edward mani di forbice (Edward Scissorhands, 1990) di Tim Burton; il keatoniano in Benny & Joon (1993) di Jeremiah S. Chechick; il combattuto di Buon compleanno Mr. Grape (What’s Eating Gilbert Grape, 1993) di Lasse Hallström; il buffo e sognante ne Il valzer del pesce freccia (Arizona Dream, 1993) di Emir Kusturica; e appunto il problematico Don Giovanni firmato da Jeremy Leven.
Ed è su questa struggente giovane figura, che cerca una via di fuga dai drammi familiari, che si poggia l’intero film, scritto dallo stesso Leven al suo esordio come regista. Attraverso la fiction, la fantasia di una trama costruita con modelli narrativi da Hollywood classica, il regista tenta una disamina sull’instabilità emotiva che può sorgere in un individuo con un passato traumatico.
Abbracciare la figura di un personaggio mitico, in questo caso Don Juan, per celare le proprie insicurezze. Per cancellare il passato. Ma al contempo generare nell’altro, ossia il Dottor Mickler, curiosità e nuovi stimoli per la vita. In particolare verso i sopiti sentimenti per la moglie.
La narrazione di Don Juan De Marco si svolge tra realtà (le sedute mediche e la vita privata dello psichiatra) e fantasia (le storie che racconta il giovane). E questa dicotomia – a cui si aggiunge quella di “normalità” contro “anormalità” (secondo le prescrizioni mediche) – serve per rappresentare il messaggio di fondo: soltanto l’amore potrà salvarci da una vita grigia e abitudinaria.
Leven, sebbene con metodologie registiche non sempre corroboranti, riesce a rendere avvolgente questo racconto. E anche Marlon Brando, ormai sovrappeso e lontano dagli splendori fisici di un tempo, sa donare al personaggio quel pizzico di fulgore recitativo ed emotivo. Uno psichiatra sornione, che, come un bambino, si fa conquistare dal racconto.