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Interviews

FilmMakerFest: l’anarchia della forma. Intervista al direttore Luca Mosso

Torna nelle sale milanesi dal 16 al 24 Novembre il FilmMakerFest, festival di cinema e documentario diffuso sul territorio ormai dal 1980. Tra innovazione, ricerca e sperimentazione, ne abbiamo parlato con il suo direttore Luca Mosso

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Il filmmakerFest ormai ha più di quarant’anni, nasce nel 1980 e sono quindi ormai diversi decenni che promuovete un’idea di cinema ibrida. Pur concentrandosi sul documentario, subisce molte influenze e contaminazioni da diversi generi. Negli anni Ottanta poi era sicuramente un unicum, specie a Milano che era un polo marginale nel panorama cinematografico italiano. Quindi mi chiedo come questa idea nasca, ma soprattutto perché nasca rispetto a una cinematografia così, se vogliamo chiamarla, ardita.

Ho cominciato a seguire Filmmaker come spettatore nel 1985. Ero molto cinefilo ma non studiavo cinema: vedevo tanti film, uno dopo l’altro dallo spettacolo delle sei a quello di mezzanotte. Ad un certo punto però ho capito che a Filmmaker in particolare c’era qualcuno che parlava anche di me, di noi, della mia generazione. In particolare i primi film di Soldini, Paesaggio con figure, poi Giulia in Ottobre erano ritratti sentimentali che rappresentavano la giovinezza nella Milano di quegli anni, ritratti molto fedeli. Non erano documentari, ma portavano una temperatura emotiva, uno sguardo di realismo un po’ ironico, un po’ distaccato. In Paesaggio con figure la fotografia di Bigazzi in bianco e nero con la Tri-x a sviluppo forzato, utilizzando luci ambientali adottava un modo di rappresentare la città dentro un immaginario collettivo che proveniva da molte influenze estere, la New Wave, il cinema indipendente americano… Così mi veniva facile connettere registi come Cassavetes e Wenders alla nostra realtà milanese.

E poi c’erano Bruno Bigoni, Kiko Stella e Giancarlo Soldi che contribuivano a portare nel cinema milanese uno sguardo cinefilo internazionale. Comincio a lavorare a Filmmaker nel 1993, invitato dall’amico Alberto Saibene. C’erano in atto cambi generazionali: il direttore di allora Silvano Cavatorta chiamò noi che avevamo 15
anni meno di lui e un atteggiamento un po’ diverso. Non da gente di cinema ma cinefili e studiosi. Io nel frattempo avevo iniziato a scrivere sulle riviste e proprio in quel periodo incontro Adriano Aprà – a cui dedichiamo quest’anno l’edizione – che aveva vent’anni più di me. Io ero molto appassionato, ma molto ignorante del cinema non ufficiale, che peraltro era molto difficile da vedere. Allora per i festival e le rassegne si facevano grandi chilometri: il mio primo festival nell’83 fu a Salsomaggiore Terme, organizzato dallo stesso Adriano [Aprà]. Partivamo il pomeriggio, arrivavamo a Salsomaggiore e tornavamo la notte tardi: erano i chilometri che facevano la cinefilia.

Nel ‘96 realizzo il mio primo programma, sul film saggio, un tema piuttosto atipico anche per Filmmaker. Presentai film di Johan van der Keuken, Gianikian – Ricci Lucchi, Nicolas Philibert, Straub-Huillet, Andrej Ujica, Derek Jarman, Stephen Dwoskin ma anche Godard, Resnais e Pasolini e soprattutto impostai un percorso di ricerca che è ancora in atto. Quando fai ricerca in un festival secondo me non puoi limitarti a proporre film di ricerca ma devi metterti alla ricerca di film che dicano qualcosa di nuovo di inconsueto anche a te stesso. Bisogna avere un rapporto sano con il proprio desiderio di vedere qualcosa di nuovo. Il ruolo del curatore è quello di condividere le proprie scoperte con la comunità del festival. È questo il compito, mi vien quasi da dire il compito, il mandato, del programmatore. Viceversa, adesso c’è troppa gente che crede il ruolo consista nel selezionare il buono dal cattivo. È un’assoluta bugia, questo lo può fare forse Venezia… Ma in un festival come il
nostro, dire “ho selezionato sette film meglio di altri quattrocento”, non ha senso.

Noi abbiamo proiettato il primo film di Demetrio Giacomelli, il primo corto di Giovanni Maderna, siamo il primo festival che ha premiato Sylvain George fuori dalla Francia. Abbiamo prodotto la prima installazione di Michelangelo Frammartino, il primo film di Alina Marazzi, il primo corto di Martina Parenti, il primo lavoro di Anna Franceschini e di Diego Marcon e di tanti altri. E passando al lato editoriale abbiamo pubblicato il primo libro italiano su Frederick Wiseman, i primi e unici su Johan van der Keuken, Errol Morris, Claire Simon, Ross Mcelwee, Lech Kowalski, Emile de Antonio, Wang Bing, Daniele Incalcaterra, di cui abbiamo curato retrospettive complete.

Il festival si è evoluto e aperto a modalità nuove come il cinema esposto, con Alberi di Frammartino, San Siro di Yuri Ancarani e Parco Lambro di Alberto Grifi, e la frequentazioni di confini interessanti con discipline contigue come il teatro e le arti visive. La nostra curiosità ci guida. A me, per dire, vengono più idee sui film spesso andando al teatro che al cinema. Stare dentro qualcosa, ma con un piede un po’ fuori.

FilmMakerFest

Alberi di Michelangelo Frammartino

In riferimento alla generazione successiva, quei curatori cinefili di cui mi parlavi, rispetto a come anche si è evoluto il cinema negli anni ‘90, potremmo chiamare il Filmmaker un festival di cinema post-moderno?

Il post-moderno secondo me era abbastanza presente nei primi film degli anni ‘80, noi siamo forse più della fase successiva: se vogliamo seguire le periodizzazioni degli ultimi anni, noi abbiamo seguito il nuovo realismo, potremmo chiamarlo il post post-moderno. Il ritorno all’interesse per la realtà, senza però uno sguardo ingenuo. Noi sappiamo che la macchina da presa ha un rapporto speciale con il reale, ci restituisce un effetto di mimesi molto forte. Ma quando si gira un film documentario, è chiaro che si sta seguendo un’intenzione, un progetto, a volte addirittura una finzione.

E si deve spesso fare i conti con le autorappresentazioni che le persone agiscono quando stanno davanti alla macchina da presa, eseguendo le attività che fanno tutti i giorni, però con la consapevolezza di essere ripresi. Il cinema del reale presenta molte più opzioni di approccio rispetto al cinema di finzione. Pensiamo a quanti generi il documentario ha e quante possibilità di approccio – anche radicalmente diverse, presenta. Il documentario In questo continua ad essere un campo dove forse c’è più novità, più interesse, ci sono più realtà di forme possibili.

Hai citato il rapporto tra l’osservato e l’osservante, una delle vostre masterclass chiamata “chi ha mai incontrato un io” di Matteo Mareggi si concentra sul cinema in prima persona, quello che oggi potremmo chiamare il POV. È un modo di fare cinema spesso considerato quasi celebrativo rispetto a sé, un problema annoso nel documentario. Ti chiedo quindi come si possa calibrare l’autenticità propria del cinema del reale con il rischio di essere autoreferenziali?

Io non vedo questa difficoltà, nel senso che quando qualcuno filma il reale può nascondersi dietro alla camera, così come far sentire la sua presenza, o addirittura esibirsi davanti alla camera. Sono modalità diverse: io posso raccontare il funzionamento di un ospedale rimanendo ad osservare senza interagire con i pazienti – come in Hospital di Wiseman – ma come potrei raccontare il rapporto che ho con mia madre seguendo questa modalità? Devo chiederle cos’è successo quando non ero ancora nato. Ci vuole un dispositivo diverso. Dobbiamo pensare ai dispositivi sia come mezzo che come modalità organizzativa del reale.

Michelangelo Frammartino, che il festival conosce bene, una volta ha descritto il Filmmaker come un “festival con le mani in pasta” perché è una realtà che permette a progetti di grande valenza ma senza grosse finanze di avere una prima visibilità. Ti chiedo quindi, anche alla luce del fatto che il festival ha seguito nel suo impegno diverse generazioni di giovani cineasti, come vedi oggi il suo ruolo, nella formazione e nel supporto di questi nuovi autori italiani. Soprattutto, anche con la continua evoluzione della forma e dei diversi media, che iniziano forse in qualche modo a bruciare terreno attorno al cinema, se pensi ci sia ancora un effettivo mercato per le forme sperimentali.

Il Filmmaker nasce dal desiderio di quegli autori che volevano visibilità, che credevano di meritare ma che non riuscivano ad ottenere perché non rispondenti alle regole del mercato mainstream. Ancora negli anni ‘90 per filmare avevamo una grossa barriera d’accesso, perché il formato 16mm aveva dei costi spesso insuperabili.
Oggi il problema non è più arrivare a girare. Il problema è progettare, scrivere, organizzare, avere la consapevolezza per utilizzare al meglio le varie possibilità di queste tecnologie. Quindi c’è molta gente che accede ai film, alla possibilità di fare film, ma c’è poca gente che riesce a costruire un progetto di senso. 

Qui si inserisce Filmmaker: nel 2012 abbiamo presentato il primo progetto di sviluppo. Abbiamo fondato InProgress, un luogo dove, partendo da un’idea di film, si arriva ad un progetto da presentare: ad un produttore, un fondo. Un film che negli ultimi anni ha avuto un discreto successo, sviluppato da noi è Gli oceani sono i veri continenti di Tommaso Santambrogio, che quest’anno è in giuria da noi. 

FilmMakerFest

Un’immagine da Gli oceani sono i veri continenti

Parlando ancora di Masterclass, quella dove interverrà Sangiorgio si chiamerà “Il cadavere squisito”, dove verranno esplorati media quali il found-footage, la tendenza al re-utilizzo delle immagini ed in generale temi che potremmo definire derivativi dell’effetto nostalgia.
Q
uesto fenomeno è riscontrabile in tanti altri ambiti come la musica, lo vediamo coi vinili. Perché oggi il cinema d’archivio riscontra tanto successo? Pensiamo anche solo alla tendenza di girare in pellicola, con costi esorbitanti che non sarebbero necessari. Perché questa volontà di ritrovare un’estetica retró?

Nel cinema sperimentale, che è un cinema primariamente d’artista, l’archivio ha un po’ a che fare con la pratica del ready-made: utilizzare qualcosa che già esiste con una funzione diversa, metterlo in una cornice e farlo diventare così una nuova opera. Molto spesso il lavoro nel cinema sperimentale consiste nell’utilizzare la materialità esistente e plasmarla in una forma nuova.

È poi chiaro che invece un’altra tendenza è quella di utilizzare l’archivio come pratica che si posiziona al di fuori dell’industria, cioè quella del cinema amatoriale, la cronaca del quotidiano che assume nel tempo le sembianze del sogno, un’idea lontana: la nostalgia, appunto.
Simon Reynolds l’ha studiato nel suo Retromania, come fenomeno nel rock, mentre in Italia è uscito un libro di Emiliano Morreale, L’invenzione della nostalgia, che racconta della nostalgia per qualcosa che non abbiamo mai vissuto.

Ovviamente questo comporta un rapporto ambiguo con l’industria, che ne sfrutta il funzionamento. Ora, dentro questa tendenza ci sono prodotti interessanti, ce ne sono altri che lo sono meno. Ci sono progetti liberi, altri più direzionati.
Io credo che il found footage sia uno strumento importante per chi lavora sul tempo, al di là della nostalgia, al di là delle mode: lavorare sul tempo è una delle caratteristiche del cinema. Se invece applico un effetto per dare l’effetto della pellicola, il tempo lo perdo.

Oggi nel mercato vediamo un continuo evolversi di strumenti, media e piattaforme.
Pensi che questo, anche in relazione ad una delle vostre categorie – la categoria cinema expanded dove presenterete i film VR – possa o abbia già influenzato il linguaggio del cinema sperimentale ed in generale quello del documentario? Penso ad esempio alle recenti dichiarazioni di Harmony Korine: per lui Twitch è il nuovo cinema, I Show Speed, noto streamer, è il nuovo Tarkovsky. Al di là della provocazione, pensi che in qualche modo almeno una buona parte del cinema come lo conosciamo oggi, quello che consideriamo oggi autentico, inevitabilmente dovrà adattarsi?

Il progetto Expanded nasce come uno sguardo a specchio: così come il cinema guarda all’immersività, la realtà virtuale invece si confronta con le modalità del cinema.
La questione fondamentale della VR, la cosa più affascinante è il fuoricampo, il fatto che non esista il quadro: tu vuoi muoverti virtualmente ovunque, i limiti dell’inquadratura non sono dati ma sono il frutto dell’interazione fra il mezzo ed il suo fruitore, lasciano aperto ad una questione fondamentale, cosa vediamo e che cosa vorremmo vedere. Mi interessa molto quest’area, tutte le aree liminali sono potenzialmente molto feconde.
Poi non so se e come il cinema cambierà, il cinema cambia sempre. L’immersività nel cinema c’è da un bel po’ di tempo: direi dal suono Dolby.
L’Italia è un po’ in ritardo rispetto al VR, ma ci sono degli autori molto interessanti, e molte riflessioni d’alto livello nell’accademia. Noi lavoriamo con Barbara Grespi e Andrea Pinotti del gruppo di ricerca ANiCON della Statale, che ci hanno fatto capire molte cose sulle immagini contemporanee.

FilmMakerFest

Grosse, progetto VR per la regia di Giulia Brusco, in concorso nella sezione Expanded

Sempre parlando di influenze, l’ultima delle masterclass che ancora non abbiamo citato è la tua, ovvero “La seconda nascita del documentario”, che tratta di come il genere si sia evoluto a partire dagli anni ‘60, quando c’erano due filoni, che spesso vengono sovrapposti, confusi, ma che in realtà, seppur presentino delle somiglianze, presentano anche delle divergenze importanti, ovvero il cinema verité ed il direct cinema. Quindi ti chiedo, nell’arco di questi sessant’anni, quale pensi che siano l’eredità di queste due culture cinematografiche oggi?

Nel 1960 si ricostruisce l’alfabeto del documentario. Il documentario nasce con il cinema, quello dei Lumière, il primo film, Gli operai che escono dalla fabbrica, è un documentario. Poi ci sono le sinfonie urbane, il cinema etnografico, i film inglesi del Gpo, ma quando arriva il sonoro, le cose cambiano drasticamente e si rifonda il documentario.

Cinema verité e direct cinema: da una parte c’è il cinema che, avendo il suono, può fare le domande alle persone che incontra per strada, dall’altra il cinema che segue le storie che incontra scomparendo, limitandosi ad osservare e filmare quello che accade. Questa tendenza ha avuto diverse forme, più o meno spurie, più o meno ibridate con altre: Wiseman, Nicholas Philibert – presente quest’anno con At Averroes & Rosa Parks, film bellissimo – Claire Simon… Sono tutti autori che entrano per discutere il reale da ormai sessant’anni.

Il cinema verité invece nasce sulla base di un equivoco: come usare il sonoro? Il sonoro serve per fare delle domande, intervenire, avere una relazione col proprio
personaggio. Il cinema in prima persona nasce qui, dall’interpellazione diretta. L’interpellazione diretta vuol dire che provochi la realtà, non la osservi.
Filmi l’effetto della tua provocazione. È reale? Certo che è reale, ma l’hai provocato tu, filmi quello che hai provocato. Qui l'autore fa un passo avanti, si dichiara, la realtà che filma è quella che lui ha provocato. È un altro modo di raccontare il reale, è un modo per esplicitare l’influenza che chiunque filma esercita su quello che ha filmato, che sta filmando.

Poi Sangiorgio parla anche di dispositivi automatici dove non c’è nessuno dietro la camera. Quando uno fa un film a partire dalla camera di sorveglianza, chi c’è dietro la camera di sorveglianza? Nessuno, è automatica, è indifferente, non ha interesse, non ha curiosità, non soffre, non gode, però noi possiamo usarla. Anche questo sguardo, senza nessuno dietro, è affascinante.

Il punto di vista di Dio, no? Come diceva Hitchcock.

Eh, di Dio, se esiste, un Dio assente, la macchina del potere che registra. Sono film che non interessano a nessuno finché non succede qualcosa. Allora a quel punto tutti vanno a vedere, ma cosa c’è davanti a quella camera? È il mondo che viene filmato, è il mondo che viene mappato.

Hai menzionato prima Adriano Aprà, che è stato tra i più grandi, se non addirittura il più grande critico cinematografico in Italia, scomparso quest’anno. Gli avete dedicato un’intera retrospettiva: sappiamo che è stato determinante nel plasmare l’idea di cinema underground, attraverso diverse rassegne, curando autori che arrivavano in Italia per la prima volta.
Quindi ti chiedo, avendolo conosciuto, come pensi che abbia aiutato ad inventare – perché una cultura di questo tipo andava pensata ex-novo – la cultura di un cinema alternativo che ha poi inevitabilmente avuto delle ricadute sul circuito mainstream?

Adriano [Aprà] era una persona a cui piaceva stare dentro le cose. Era una persona molto attenta, molto curiosa. Non aveva quest’idea astratta che alcuni critici hanno, di essere come una sorta di giudice, di censore. Lui sosteneva gli autori: pensava che il critico, come il programmatore, dovesse sostenere, scommettere sugli autori, non selezionarli. Adriano era così, era vicino, conosceva gli autori, li programmava, li accudiva quasi.
Non aveva pregiudizi, sapeva raccogliere le novità. Aveva un rapporto stretto con gli artisti; questa non è una cosa frequente nei critici, anzi. Ci sono critici che non conoscono gli artisti, non hanno neanche intenzione di conoscerli. Pensano di esserne separati. Io credo che sia assurdo, quello che noi dobbiamo fare in qualità di critici è quello di collegare gli autori al loro pubblico, alla comunità.

I temi di quest’anno: il Filmmaker è un festival con una direzione, potremmo dire addirittura una missione precisa. I temi che presentate sono ovviamente tutti legati alla contemporaneità, quindi l’ecologia, i conflitti, la decolonizzazione…
Tutti temi molto sentiti, potremmo dire urgenti. Ti chiedo quindi come pensi che ad oggi il cinema documentario possa raccontare il presente – cosa che è stata sempre la sua funzione principale – ma in una prospettiva diversa rispetto a quella che già altri media tradizionali e nuovi ci presentano, perché ormai pervadono il nostro senso di realtà.
Ad oggi magari ci si informa dal notiziario, dalle news veloci, sui social, invece che contemplare un’opera cinematografica che richiede un certo tipo di impegno dove i temi vengono analizzati. Questo forse è uno dei temi indiscutibili del nostro presente, l’incapacità, la tendenza a ridurre sempre il contesto di riferimento e semplificarlo, quindi ti chiedo come il cinema documentario si possa distinguere in questo scenario.

Ti dirò una cosa che sembra paradossale: a me non interessa il documentario equilibrato, televisivo, che porta il parere di tutti, che pretende di essere oggettivo, che dà la parola a una parte come al suo contrario. A me interessa invece lo sguardo parziale, personale, anche idiosincratico, in cui c’è qualcuno che si prende la responsabilità di dire questo è il mio punto di vista rispetto a questa situazione.

Prendersi delle responsabilità, esprimere pareri anche duri, ma veramente parziali, opinioni particolari. Il documentario lo fa più della finzione, perché è più piccolo, perché nei casi migliori abbiamo un autore o un’autrice che è ancora a contatto con il mondo, lo filma in modo onesto. Per cui non mi importa l’oggettività nel rapporto con la realtà, ma piuttosto il fatto che ci si impegni, che ci si metta il proprio punto di vista, col quale siamo portati a confrontarci.

Penso a Claire Simon in Apprendre dove esplora i temi della lingua, dell’integrazione, raccontando un quartiere complicato; trova all’interno dei ragazzi, della classe, i principi della fraternità, l’uguaglianza, cioè i principi della rivoluzione francese, e il diritto alla felicità la base della cultura americana. Quindi è come se una classe fosse un mondo dove si può sviluppare una piccola utopia, perché i bambini hanno ancora disponibilità nel mettersi in gioco, nel costruire qualcosa insieme.

Abbiamo parlato dei temi, abbiamo parlato di alcuni autori anche ricorrenti come Claire Simon, volevo chiederti anche in riferimento ai film, se volevi parlarci un po’ di alcuni corsi e ricorsi, ovvero autori a cui vi siete particolarmente affezionati nel corso degli anni e che tornano in questa edizione e in generale i titoli di questa edizione, siccome molti film sono in anteprima nazionale o addirittura mondiale.

Sì, ci sono delle facce note: di Claire Simon abbiamo fatto la retrospettiva, di Ruth Beckermann anche, a Johann Lurf abbiamo fatto un omaggio. Di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti abbiamo presentato quasi tutti i film.
Ai “nostri autori” siamo affezionati, ci propongono sempre i loro film in prima italiana, però cerchiamo comunque di equilibrare la selezione tra artisti noti e nuove ricerche.

Abbiamo poi Donatella Di Cicco con Via Campegna 58: un film di quelli che dicevamo, in prima persona. L’autrice si confronta con una storia familiare, un padre anziano. È un film molto carnale, molto personale, mentre l’altro film italiano in concorso è un film di rigorosa e un po’ distante osservazione: come dicevo, ci piace mescolare.
Poi abbiamo Intercepted di Oksana Karpovich che racconta la guerra in Ucraina in modo molto interessante: vengono infatti utilizzati come mezzo narrativo i messaggi dei soldati russi intercettati, che mandavano alle famiglie. Quindi uno sguardo intimo dentro la guerra.

Un altro film che mi piace molto della selezione è un film molto particolare che si chiama Makamisa, il fantasma della vendetta del regista filippino Khavn de la Cruz. È un falso film etnografico degli anni venti che si merge con la musica elettronica e con gli effetti digitali. Parla di un poeta rivoluzionario anticoloniale, un mito del suo paese visto però nella prospettiva di uno sguardo strettamente contemporaneo: prende quest’eredità e la trasforma in grandi visualizzazioni, con effetti digitali, sovrapposizioni. Lo fa giocosamente, in modo molto reale quanto divertente.

In Prospettive abbiamo l’esplosione delle forme, delle durate, dei modi. Parlerei di due film che vengono da Napoli, molto diversi tra di loro, L’eco dei fiori sommersi di Rosa Maietta, un documentario molto attento che esamina le storie femminili dimenticate tramite i documenti dell’archivio di Stato di Napoli.
In Il capitone, la regista Camilla Salvatore lavora invece sul percorso di una ragazza trans con affetto e lucidità.
Ci sono film che usano gli archivi; quello che forse mi ha colpito prima di tutti è quello di Veronica Orru’, dal titolo Un modo di sorridere insolito, che si appropria di una storia trovata casualmente in un archivio, storia che diventa poi un confronto con la propria.

La cosa interessante è che gli under 35 hanno una ricchezza di espressione e di forme, una fase pre-mercato, non hanno una committenza, non hanno un produttore a cui rispondere. Mi sono molto divertito a cercare i film dei ragazzi, forse mi diverto di più a cercare i film degli under 35, di persone che non conosco, persone di cui vedo per la prima volta un loro film, magari il loro primo. C’è molta libertà nell’affrontare il cinema, è bello vedere i film prima che arrivi qualcuno a metterci i soldi. Anche se poi è chiaro, i soldi servono. 

Domanda bonus: abbiamo detto che il festival ormai corre libero da più di quarant’anni, mentre tu sei direttore ormai da più di dieci, quindi immagino tu abbia una visione abbastanza solida di cosa sia stato e cosa debba continuare ad essere.
Quindi ti chiedo se hai una visione chiara anche di quello che sarà il Filmmaker in futuro. Qual è la tua visione, almeno nel breve termine. Ci sono progetti, sezioni o idee che vorreste sviluppare o che state sviluppando per le quali siete particolarmente fieri e , per concludere, ti chiedo anche, qual è la vostra proposizione per continuare a coltivare un cinema anarchico?

Io credo che trovare storie nuove e le scatole per mettercele dentro, sia sempre fondamentale. Il teatro sconfinato, per dire, è un’area che ha molto a che spartire con il teatro. Quest’anno c’è un film di Bigoni e Lolli che è come uno spettacolo teatrale, uno Shakespeare ambientato nel carcere di Bollate.
Alessandro Rossetto ci porterà un progetto sperimentale del tutto autentico: un oggetto esprime il desiderio di diventare cinematografico, nel recitare un testo teatrale. Ho sentito Alessandro [Rossetto] e gli ho suggerito di registrare la prova, allora il testo è diventato una settimana di residenza, elaborato, messo in scena e poi registrato. Quello che porterà a Filmmaker è quindi questo testo: è la storia che desidera diventare film, ma non lo è ancora, ma ha questa prospettiva sonora. È affascinante esplorare realtà che sono a metà tra una forma e l’altra, in questo caso addirittura a metà fra una fase e l’altra.
Per me oggi è molto importante anche il rapporto che lo spettatore ha con il film: noi il film infatti lo vediamo in tante maniere diverse, sul computer, poche volte al cinema, sulla tv. 

Bisogna lavorare sulla percezione, su quello che c’è, quello che manca, quello che cambia, cosa succede quando il film viene portato fuori dal cinema. Si tratta, se vogliamo chiamarlo così, del cinema esposto, una disciplina nuova che mi interessa molto e che mette al centro la questione di come vediamo il film: non di cosa vediamo, ma di come lo vediamo. Oggi è importante essere innovativi e ragionare su quello che il film dice, ma non possiamo fare a meno di pensare di come vediamo il film.Fino a qualche anno fa, la modalità privilegiata di visione del film era la sala cinematografica. Oggi il film lo vediamo su una piattaforma, lo fermiamo, andiamo avanti, non abbiamo capito, torniamo indietro, lo scarichiamo, lo rimontiamo, possiamo fare tutto quello che vogliamo. È cambiato completamente il rapporto con l’opera: prima noi dovevamo stare alle regole del film, adesso la dinamica è completamente diversa. Quello che mi interessa è trasformare questa nuova prospettiva in una sfida per lo spettatore, una forma, se vogliamo, anche artistica, in cui la riflessione si concentra sull’idea di vedere.

Vedi anche: l’intervista di Taxi Drivers a Paolo Sorrentino

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