Breath (Souffle) è il documentario opera prima di Ilaria Congiu presentato in prima mondiale al Medfilm Festival di Roma il 9 novembre 2024. Il film è stato coprodotto da Mediterraneo Cinematografica (Italia) e Propaganda Productions (Tunisia), in collaborazione con MyMovies. Prezioso è stato anche il contributo di Calabria film Commission e di Sicilia Film Commission, nonché del Ministero della Cultura e del CNCI.
Il documentario affronta il tema della problematica relazione tra società e mare attraverso parole e esperienze provenienti da Italia, Senegal e Tunisia di persone che in un modo o nell’altro hanno con il mare un rapporto profondo ed emotivo.
A partire dalla sua esperienza personale, Ilaria Congiu conduce lo spettatore ad immergersi nel mare (quello della sua infanzia, come quello solcato dalle feluche siciliane e dalle imponenti barche da pesca industriale) per raccontare quanto sia essenziale riallineare il nostro respiro al suo.
Inserendosi in un filone di documentari socio-ambientali in espansione che offrono una panoramica globale sui problemi connessi alla pesca (in)sostenibile e alla gestione delle riserve ittiche, il lavoro di Congiu tenta di integrare una prospettiva intimistica grazie alla narrazione in prima persona della relazione con il padre, e agli intermezzi dedicati a raccontare la relazione emozionale con il mare (attraverso l’esperienza della discesa in apnea) con una denuncia delle conseguenze della pesca industriale sugli ecosistemi marini globali e su chi porta avanti una pesca tradizionale.
Staying with the trouble
Il modo in cui la regista ha costruito il documentario risuona con il concetto di Staying with the Trouble della filosofa Donna Haraway, accettando di restare dentro alle complessità e alle crisi socio-ecologiche per esplorarle.
Guidata dalla propria (ma generazionale) ecoansia, la regista intreccia frammenti della sua storia di vita e del suo legame emotivo con il mare, invitando chi guarda a riflettere su temi cruciali: dalla pesca intensiva, insostenibile e crudele, che depreda i mari, alla devastazione causata dal riscaldamento delle acque, fino alla perdita di pratiche tradizionali di pesca sostenibili, portatrici di una conoscenza profonda e rispettosa del mare seppure insufficienti per alimentare il consumo di pesce attuale (sia in termini di qualità che di quantità).
Attraverso riprese che portano spettatori e spettatrici vicino, sopra e dentro il mare stesso, la regista ci catapulta letteralmente dentro il problema – dentro quel “trouble” che una relazione malsana e insostenibile tra umanità e oceano sta creando, immergendosi nella crisi come esperienza viscerale e necessaria.
Breath. Andare a fondo, risalire.
Nella cornice costiera di frammenti da videocassette che ne avvolgono lo svolgersi, immersione è tra gli esercizi chiave di Breath. È l’azione che guida il documentario, ne indica insieme il metodo narrativo ed il messaggio.
Andare a fondo è, in primo luogo, ciò che Congiu fa di fronte alla sua infanzia, memorie che si sono allontanate nel tempo e nello spazio. Ecco allora che il viaggio in Senegal, la visita al padre distante e l’incontro con i pescatori producono una crasi temporale. Ritornare ed andare si mischiano, ricordare e trovare anche, nell’andirivieni ondoso di scene dal Mediterraneo alle coste atlantiche.
Respiro, andare a fondo, risalire. Ma immersione è anche una richiesta al pubblico, il pianto spesso strozzato di Breath.
Se respirare è ciò che, comunemente, ferma l’affanno, è qui subito energia per una parola rinnovata: il mare, ben più della sua superficie, è il suo volume. È abisso e vita che sempre si rigenera, spazzatura e buio profondo. Non a lui ma a noi facciamo male, se anteponiamo il nostro piccolo al suo infinito respiro.
Un difficile equilibrio tra potenza espressiva e fragilità narrativa.
Sebbene il lavoro risenta di una certa frammentarietà e diverse mancanze esplicative (come l’indicazione di chi sono le persone intervistate), soprattutto nella prima metà, che rende la narrativa (e in parte la narrazione) poco fluida e impone allo spettatore uno sforzo supplementare per identificare il tema e il filo conduttore del lavoro di Congiu, la seconda parte del documentario permette una più agevole comprensione delle tematiche e della prospettiva da cui sono analizzate.
Il messaggio che Congiu ci consegna con alcune affermazioni di grande impatto metaforico (“il mare sta bruciando” o “il mare è diventato silenzioso”) è importante sebbene ovvio.
Tuttavia all’analisi del sistema dell’industria globale che sta impoverendo gli oceani, avrebbe giovato una riflessione più approfondita che mettesse in discussione anche la prospettiva antropocentrica e la critica (non completamente compiuta) delle contraddizioni interne anche della visione anti-industrialista e le scelte di ritorno alla tradizione.
Andare a fondo, e poi risalire. Questo è il tornare indietro che, forse, è veramente indispensabile.
Caterina Pozzobon, Luca Bertocci, Chiara Certoma’ (Sapienza Università di Roma – Memotef)
Ilaria Congiu, regista.