Tra i titoli del concorso internazionale del Festival dei Popoli ce ne sono anche diretti da registi italiani e uno è The Flats di Alessandra Celesia. La regista torna alla kermesse dopo aver trionfato nella 53esima edizione con Il libraio di Belfast. Anche in questa edizione Alessandra Celesia mette al centro della vicenda la città dove vive da diversi anni insieme alla sua famiglia.
Belfast, New Lodge. Nel suo appartamento in un quartiere cattolico e working class, Joe rievoca i traumi di gioventù vissuti durante gli anni ‘80, segnati dal conflitto nordirlandese. Insieme a lui, Jolene, Sean, Angie, che condividono questo processo collettivo di rivisitazione delle storie di violenza che hanno plasmato le loro vite. A poco più di dieci anni da Il libraio di Belfast, Alessandra Celesia fa ritorno nella capitale dell’Irlanda del Nord per dare vita a un film che rielabora e rimette in scena i traumi di una comunità segnata dai cosiddetti “Troubles”.
Ad Alessandra Celesia, nell’ambito del Festival dei Popoli, abbiamo fatto alcune domande per capire meglio il film.
Alessandra Celesia torna a Belfast
Perché proprio Belfast? Si può considerare un tuo elemento caratteristico visto che hai diretto un altro documentario su Belfast, tra l’altro presentato proprio al Festival dei Popoli?
La premessa che devo fare è che sono sposata con un ragazzo di Belfast dal 1997, quindi proprio nel momento degli accordi di pace. Quando sono arrivata là mi sono innamorata della città, dei personaggi perché sono incredibili, però ho sempre pensato che non avrei mai voluto fare un film sui Troubles perché, appunto, era l’inizio del processo di pace, tutto il resto era dietro di noi. Poi, in realtà, ho fatto un film, Il libraio di Belfast che racconta la storia di questo libraio, dove la storia dei Troubles, alla fine, si è infiltrata un poco, ma non era dedicato a quello.
Negli ultimi anni avevo l’impressione che comunque questa onda d’urto della guerra continuava a lasciare delle tracce, che la società continuava ad avere questo trauma che non andava via e poi ho pensato anche che era un po’ l’ultima generazione di quelli che avevano partecipato e che se volevo filmarli dovevo farlo ora. Così è nato poi The Flats.
Infatti ho notato subito questo richiamo con Belfast.
Sì, infatti sono molto emozionata di essere qua al Festival dei Popoli perché è stato un momento molto importante perché praticamente iniziavo qua. Era il secondo/terzo film ed è stata proprio una specie di spinta, anche con quel premio.
Una seduta psicoanalitica collettiva
In generale ho apprezzato come hai strutturato il film in generale (è stato definito una grande seduta psicoanalitica collettiva). Nonostante, però, sia così non c’è la persona che ascolta passivamente, ma è un confronto continuo. Noi spettatori, forse, siamo quelli che ascoltano, però tra loro è un raccontarsi a vicenda.
Sì perché è veramente la storia di una comunità, nel senso che la storia di Joe, che poi è quella che è al centro, a proposito di questo suo zio che è stato ucciso quando era giovanissimo, in realtà è un po’ la storia di tutti. Tutti in quel quartiere purtroppo hanno una storia di violenza, di qualcuno che è stato ucciso e quindi, in realtà, si sono tutti da fare per raccontare la storia di Joe, che era la loro e quindi sì, è una storia molto collettiva.
La cosa bella, però, è che ci sono particolari anche intimi dei personaggi che non raccontano a grandi linee, ma con precisione. Anche Joe, infatti, ripercorre, attraverso dettagli come il cerotto, per esempio, la morte dello zio, quindi è proprio un’apertura completa in questo senso.
Innanzitutto devo dire che film sui Troubles dove si raccontano quasi in maniera professionale le storie tragiche che sono accadute ce n’erano tanti. Quindi ho pensato che se dovevo fare un film su questo doveva andare nel profondo dell’intimità di qualcuno. Ho passato quasi sette anni ad andare avanti e indietro nel quartiere con Joe quindi c’era quell’intimità che si avverte anche in relazione alla sua apertura nei miei confronti. A proposito di questo mio marito dice che, per essere una città dove gli uomini non parlano volentieri di questa cosa, io sono riuscita a farli aprire e quindi c’è come un aspetto italiano del film in un certo senso. Forse è proprio il fatto di voler andare fino in fondo a capire tutti i dettagli della sofferenza, e in Joe era interessante perché era la sofferenza di un bambino e quindi dell’infanzia tradita dalla guerra, che poi, in realtà, permette di raccontare tante altre guerre.
Ricreare il passato
Rimanendo su Joe come hai avuto l’intuizione di ricreare il suo passato attraverso, per esempio, la messa in scena del momento in cui il bambino mette il cerotto sul naso dello zio sulla bara?
Intanto diciamo che l’appartamento di Joe, come tanti altri appartamenti, era bloccato negli anni ’70, c’era questo stile che permetteva di sentire il passato in maniera molto forte perché era come se non fosse cambiato nulla in quell’appartamento, anche proprio dal punto di vista del set. E questo corrisponde un po’ a quello che si sente in quel quartiere dove la gente è ancora bloccata in un passato misto al presente. A un certo punto sapevo che sarebbe potuto avvenire solo attraverso la parola, ma, in qualche modo, non mi bastava. Allo stesso tempo, però, non si può obbligare nessuno a fare determinate cose e quindi io ho fatto delle proposte.
L’inizio è stato proprio comprare una bara e portarla a casa sua e chiedere a Joe se voleva provare a ricreare quel momento. Se, naturalmente, avesse reagito diversamente non saremmo andati avanti. Ho sentito, però, che era un momento molto forte per lui e quindi siamo andati avanti. La scena che abbiamo nel film è stata girata come un esperimento, cioè doveva essere solo per provare la telecamera, l’équipe, ma alla fine è stato totalmente forte quello che è avvenuto che lui si è trasformato in regista, in qualche modo, della sua propria vita.
In questo modo sia ha la sensazione che lui si sia anche un po’ liberato o meglio alleggerito da questo peso che portava con sé.
Anche io ho l’impressione che sia successo. Non penso che i film possano veramente curare nessuno, però vedo nella pratica delle cose che, per esempio, ha smesso di bere, ha preso un sacco di decisioni per la sua vita che sono piuttosto sane e positive, quindi, anche se non so se sia per merito del film, però in realtà sta meglio di prima.
Il messaggio del film di Alessandra Celesia
Anche per questo mi viene da dire che The Flats è un film con un messaggio di speranza. Oltre a far conoscere la situazione dei Troubles, dà speranza.
Penso di sì, e penso che sia una speranza nel senso che la città sta evolvendo, sta cambiando. È chiaro che alcune problematiche sono ancora molto presenti e che possono ricomparire (abbiamo visto durante il periodo della Brexit come tutto questo può tornare a infiammare la città), però si va verso il meglio.
E poi credo che per affrontare un film su questa guerra, considerando anche che ce ne sono tanti altri su questo argomento, si doveva entrare in un mondo altro: secondo me ci volevano colore e fantasia per riuscire a raccontarlo in una maniera più poetica e intima e poetica. Questo era proprio un desiderio che avevo e Joe, in qualche modo, è stato scelto apposta, nel senso che solo lui poteva portare questa storia in questo modo perché ha tutte le sfaccettature, dal tragico al comico al tragicomico.
La ricerca del materiale d’archivio
Come hai lavorato, invece, sulla ricerca del materiale d’archivio?
In realtà il materiale è arrivato molto tardi nel film e io pensavo di non inserire archivi, anzi ero proprio ossessionata all’idea di fare un film senza archivi, tranne quel momento in cui si vede lui che si riflette nel televisore e che era stato proprio filmato per raccontare quel momento di rivolte dopo la morte di Bobby Sands. Pensavo a una cosa un po’ onirica, notturna con il suo viso che si confonde con le informazioni, però non immaginavo di portare degli archivi nel film. L’idea è arrivata molto tardi nel montaggio ed è stata una proposta del montatore che io non avevo neanche considerato più di tanto. A un certo punto, invece, ci siamo resi conto che una cosa è raccontare la violenza e una cosa è vederla e poi mi ha spinto il fatto che era una guerra abbastanza dimenticata.
La mia generazione conosce Bobby Sands, anche stando all’estero, ma la generazione più giovane no. Abbiamo capito che c’era proprio la necessità di portare la figura di questo martire che, per Joe, è importantissimo, anche perché a un certo punto, senza neanche saperlo, erano tutti coinvolti, in qualche modo, dalla morte di Bobby Sands: o erano stati alla veglia funebre o lo conoscevano ed è un po’ quella figura di martire che si ritrova purtroppo in tantissimi altri conflitti e che poi crea la forza di un’icona che rimane nel tempo e a cui in maniera, anche, appunto, un po’ tragicomica, Joe si rifà quando decide di vendere la droga nel suo quartiere, utilizzando gli stessi mezzi della lotta che erano stati quelli dei suoi eroi.
Volevo che comunque continuasse a essere una cosa mentale perché ci sono le due voci e mi piaceva mantenere l’idea che nascesse dai ricordi di Joe.
E questa dimensione onirica aleggia in tutto il documentario perché non c’è una divisione netta tra materiale d’archivio e non. È come se fosse un flusso di ricordi e pensieri.
Sì, che poi è quello che veramente senti in quel quartiere, dove il presente e il passato sono ancora uniti nello stesso tempo quasi come se non si potesse lasciare andare il passato, come se ci fosse anche quasi una nostalgia di quel tempo perché per la generazione di Joe era anche un tempo pieno di lotta collettiva, di cose che si facevano insieme. A tal proposito c’è il fatto che il film è stato fatto in maniera così collettiva dal quartiere che ha riportato insieme anche persone che magari erano chiuse nei loro appartamenti da un po’ e li ha riportati intorno a una causa, quella del film.
Con questo documentario, alla luce di quello che mi dici, si ha la sensazione, in effetti, di tornare a quell’epoca.
Sì, è vero. Poi abbiamo anche utilizzato una telecamera particolare per rendere visivamente questa cosa e questa patina del passato.
Il ritorno di Alessandra Celesia al Festival dei Popoli
Quali sono i tuoi pensieri sull’essere stata selezionata dal Festival dei Popoli e sul fatto di tornare qui, nel concorso internazionale, nuovamente con un film su Belfast.
Sono molto onorata ovviamente; è molto bello perché è anche una riflessione dopo tanti anni sul tuo lavoro e il fatto che questa riflessione venga proposta nello stesso contesto è un po’ come se le persone di questo festival avessero seguito da lontano il lavoro. C’è stato comunque un film che ho portato, che avevo girato a Napoli, però con questo c’è una sorta di legame che si è creato e per me è molto molto bello. Tra l’altro nel film Il libraio di Belfast c’era un personaggio che ritroviamo in questo film, quindi è come se fosse una seconda parte, la più matura. Poi sono anche rimasta molto legata a lei, Jolene, perché la vedo come una sorta di Anna Magnani, nel senso che, per me, è la donna del popolo di Belfast.
Quindi questo si può considerare un secondo capitolo? Vuol dire che poi ci sarà un altro appuntamento?
Chissà… Comunque sono emozionatissima di essere qua anche perché è la prima italiana del film e non vedo l’ora di vedere le reazioni del pubblico.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli
Per l’intervista e le foto si ringrazia Davide Ficarola, Valentina Messina e Antonio Pirozzi, ufficio stampa del Festival dei Popoli