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Conversation

‘Real’ conversazione con Adele Tulli

Siamo già nel futuro senza saperlo. Con ‘Real’ Adele Tulli continua a esplorare il rapporto tra realtà e coscienza

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Presentato in prima mondiale alla 77esima edizione del Locarno Film Festival, in Concorso nella sezione Cineasti del Presente, Real di Adele Tulli riformula il concetto di realtà individuando la soglia che separa il mondo fisico da quello virtuale. Di Real abbiamo parlato con Adele Tulli.

Prodotto da Pepito Produzioni e FilmAffair con Rai Cinema e Luce Cinecittà, in collaborazione con Les Films d’Ici il film sarà distribuito nei cinema da Luce Cinecittà.

Real di Adele Tulli

La prima immagine, quella che introduce e fa da premessa ai temi del film non ha una funzione narrativa, ma racconta più che altro una suggestione. Isolata nello spazio e sospesa nel tempo l’incerta identità dell’edificio – una struttura monolitica priva di accessi – si staglia con il suo misterioso biancore davanti alla vista dello spettatore. La neutralità di forma e colore rimandano a una dimensione e ancora di più a uno stato di coscienza e a una consapevolezza che il film avrà cura di definire e soprattutto di risvegliare. Non a caso negli ultimi frammenti Real ritorna sulla stessa immagine, ma questa volta il cambio di colore, dal bianco al nero, è il segnale dell’avvenuto cambiamento. 

La prima volta che abbiamo visto quell’edificio c’è sembrato di essere davanti al monolite kubrikiano. La struttura architettonica era particolarmente suggestiva e mi sembrava giusta per rimandare al proliferare della vita digitale di cui parla il film. Quando ho cominciato a lavorare a questo progetto eravamo in piena pandemia, chiusi dentro casa, con i corpi isolati e con gli schermi di computer e cellulari a costituire i portali verso la vita. La realtà materiale di infrastrutture fisiche come quella della prima sequenza per me era l’unica cosa concreta in un mondo dove l’incalzare della vita avveniva solo attraverso la rete. Era come se queste specie di monoliti isolati in luoghi remoti e silenziosi  custodissero le nostre esistenze. Da qui l’idea di iniziare il film con l’immagine di uno di essi.

Anche il fatto di poggiare su uno specchio d’acqua, con le implicazioni ancestrali che questo comporta, suggerisce la dimensione del viaggio filmico, il suo svolgersi su diversi piani di percezione.

Sono d’accordo, l’acqua è un elemento simbolico molto forte che rimanda all’onirico e all’inconscio e dunque al simbolo dello specchio che ritorna più volte nel corso del film.

La prima sequenza

In effetti la prima sequenza continua con la domanda del bambino all’assistenza digitale. Il primo piano del ragazzino e la sua domanda, volta a sapere se veramente è un bel bambino oppure no, rimanda alla celebre frase pronunciata in Biancaneve dalla strega cattiva “specchio delle mie brame chi è il più bello del reame?”. Da lì in avanti il tema dello specchio collegato al desiderio di conoscenza e rappresentazione di noi stessi attraverso lo strumento digitale diventa una delle chiavi interpretative del film. La sequenza successiva, quella ripresa anche dal manifesto del film in cui vediamo l’immagine del leopardo riflessa sulle acque del fiume, rimanda allo stesso tema. 

Ciò che dici è vero a tal punto che in fase di lavorazione il film si sarebbe dovuto intitolare Trough the Loocking Glass proprio perché il vetro rimandava al concetto di schermo come soglia, passaggio e attraversamento. Alla stregua del capolavoro di Lewis Carroll questo diventava il portale verso una realtà somigliante alla nostra, ma allo stesso tempo distorta. In realtà, giunti al cut finale, ci siamo accorti che il vocabolo più pronunciato era la parola reale. C’è un momento, verso la metà del film in cui le ragazze immerse nei rispettivi Avatar all’interno dello spazio virtuale dicono: «this feels very real to me». Ecco, in quel momento i confini tra esperienze fisiche e virtuali si dissolvono. Ed è lì che ho capito che il titolo più giusto era Real perché l’indagine del film era incentrata su questo cambiamento sociale, antropologico, ma anche interna all’idea di realtà. Ciò non toglie che l’idea dello schermo è stata la suggestione primaria proprio per quella sensazione vissuta durante la pandemia in cui comunicavamo con l’esterno attraverso le zoom, le call, dovendo fare i conti con l’avere sempre di fronte la nostra immagine.

Effettivamente è stata la prima volta che per interagire con gli altri abbiamo dovuto guardarci in faccia. Normalmente succede il contrario. Per certi versi è stato uno shock. 

Esatto. Lo straniamento prodotto dall’avere costantemente davanti la nostra immagine e la simulazione digitale di noi stessi mi ha fatto capire la grandezza del cambiamento in atto.

Il concetto di realtà in Real di Adele Tulli

In questo senso Real riformula il concetto di realtà individuando la soglia che separa la realtà fisica da quella virtuale. 

Sì, esatto, una soglia sempre più sfuggente e sfocata, perché senza rendercene conto le nostre interazioni quotidiane, anche quelle più banali, avvengono sempre di più nel mondo digitale. Parliamo di un confine che si sta assottigliando a velocità sempre maggiore. Ovviamente le esistenze in virtuale sono ancora l’esempio più estremo di questa situazione, però di fatto i dispositivi digitali ormai sono estensioni senza le quali non riusciamo più a stare. Aver superato la soglia che separa il fisico dal virtuale certifica una mutazione rispetto al concetto di realtà che ha ripercussioni anche affascinanti. In qualche modo è la prima volta che succede nella storia dell’uomo. Il nostro concetto di realtà è sempre stato basato sull’idea di qualcosa di materico e di fisico e non di immaginato. Oggi obiettivamente non è più così.

Partendo dalla conseguenza più estrema, quella degli avatar, Real passa in rassegna i diversi gradi di interconnessione e di interazione tra realtà fisica e virtuale. Si passa dagli esempi più semplici e direi oramai obsoleti, a quelli più avanguardisti.

Sì, esatto. Quello era anche un modo per collegare e mettere insieme la moltitudine delle tipologie. Parliamo di un argomento vastissimo e impossibile da esaurire di cui però volevamo fornire frammenti di situazioni diverse che potessero gettare luce su molti degli aspetti del nostro vivere in perenne connessione. Da quelle più comuni, legate a un passato recente alle altre, più futuristiche, in modo da riassumerle in un’unica linea temporale. I selfie delle ragazze in vacanza a Venezia, espressione massima della selfie culture collegata alla disneyficazione dei luoghi e al turismo di massa nell’era della riproducibilità tecnologica è una cosa a cui siamo ormai totalmente abituati. Magari la Smart City di Busan, ovvero il  progetto di costruzione del luogo abitativo inteso come spazio di estrazione di dati biometrici, personali e comportamentali, è qualcosa che ci appare un po’ più fantascientifica anche se si tratta di qualcosa già in atto perché basta avere un telefono e interagirci per essere comunque profilati in modo quasi completo. Insomma, sembra una cosa un po’ futuristica, ma ci siamo già dentro.

Realtà fisica e virtuale

In questa progressione di tipi umani e di modelli di connessione si inserisce il concetto di speciazione riferito a coloro che più di altri sono capaci di adeguarsi alla trasformazione in atto. In tal senso mi sembra che il film suggerisca come l’armonia di questi ultimi si opponga allo stress di chi invece è ancora in mezzo al guado, sospeso tra realtà fisica e realtà virtuale. È così?

Sì e in effetti è una cosa molto interessante. Obiettivamente questo gap mi sembra esistere anche come conseguenza delle differenze generazionali. Chi è un nativo digitale ha forse più propensione a una normalizzazione di questa eccezionalità, e cioè di percepire il mondo virtuale equivalente in termini di esperienze e di relazioni alle possibilità offerte da quello fisico. Poi sicuramente la realtà più stupefacente è quella relativa alla Virtual Reality. Prima di girare non conoscevo quel tipo di comunità e di realtà: in particolare sono entrata in contatto con una piattaforma esistente all’interno del mondo virtuale di nome VRCHAT. Parliamo di una piattaforma che dà una grande libertà e la possibilità agli utenti di creare i propri mondi e i rispettivi avatar.

Il virtuale

Di quel mondo nel film ci sono immagini incredibili e anche situazioni di cui non conoscevo nulla prima di vedere Real

La VRCHAT è una specie di proto metaverso creato prima del tentativo di colonizzazione di questo spazio da parte delle grandi aziende tecnologiche. È una situazione che ricalca quella di internet degli anni ‘90, ovvero quella di un spazio più libero e meno centralizzato in cui questa grande comunità tech-savvy vive tantissimo tempo al suo interno costruendo relazioni importanti e durature. Le realtà che ho conosciuto attraverso le persone che ho incontrato sono molto interessanti da tanti punti di vista. Uno di questi è il fatto che sicuramente c’è un aspetto di fuga dalla realtà materica e fisica.

E che per contro mette in risalto quanta paura ci sia nei confronti della realtà fisica, quella che ancora occupa la maggior parte del tempo quotidiano. Le ragazze parlano di come sia più gentile la VR rispetto alla nostra realtà.  

A me questo aspetto ha dato la misura di quanto sia diventata tossica la realtà del mondo fisico perché comunque il bisogno di avere la possibilità di un mondo più gentile, capace di costruire la realtà e il corpo dei desideri è da un lato inquietante, perché segnala al suo interno l’aspetto di escapismo, di fuga; allo stesso tempo questo dice dell’aggressività del mondo fisico. Nella VR ci sono degli spazi inclusivi in cui soprattutto le persone che fanno parte di comunità oppresse, non penso solo a quella  queer ma anche a quella delle persone disabili, trovano accoglienza e ristoro sperimentando modi di relazione più inclusivi e consoni a quelle che sono le loro esigenze. Mi sembra una cosa forte. Da un certo punto di vista è inquietante pensare che il mondo ha bisogno di questo. Per contro è anche liberatorio perchè c’è anche un aspetto di autodeterminazione ed empowerment.

Implicazioni politiche e sociali

Da questo punto di vista Real si apre a implicazioni politiche e sociali quando si parla del concetto di speciazione come capacità di alcuni di adattarsi meglio al mutamento in atto rispetto alla classe dominante. Il che è l’esatto opposto di quanto raccontato dalla narrativa del potere. 

Tieni conto che mentre giravo in VR l’hype del metaverso girava attorno alla possibilità che Zuckerberg si appropriasse di questo spazio, cosa che poi non è del tutto avvenuta anzi oggi forse sembrerebbe quasi tramontata. D’altronde un’altra cosa interessante della tecnologia è che ogni anno c’è un hype enorme su qualcosa che sembra destinato a cambiare per sempre le nostre vite. È successo con le criptovalute, il blockchain, il metaverso e ora con l’intelligenza artificiale. Al di là del clamore momentaneo non sempre queste tecnologie hanno poi l’impatto che si immagina.

Ai tempi del metaverso le persone della comunità VR temevano di essere totalmente fagocitate dal controllo del mercato. Per fortuna così non è stato. Almeno per il momento.

La struttura narrativa di Real è costruita all’interno della cornice fornita dal guru e dai suoi allievi. L’invito a meditare chiudendo gli occhi e connettendosi con gli altri diventa il modo in cui il film tiene insieme in maniera coerente le esperienze dei personaggi e la suggestioni delle immagini che lo compongono. Il film si dipana rispecchiando questa connessione e dunque legando i personaggi che di volta in volta si alternano nel racconto delle proprie esperienze. Non a caso Real si conclude quando il Guru congeda gli allievi dopo avergli comandato di riaprire gli occhi.

Sì, esatto. Anche nel linguaggio visivo c’era il tentativo di raccontare i dispositivi che consentono la connessione. L’idea di partenza è un po’ quella che ormai ovunque ci sia un’attività umana c’è anche un dispositivo che la sta registrando, quindi in qualche modo il fatto di entrare in questo sguardo meccanico che ci circonda, di cui neanche siamo del tutto consapevoli, era un po’ il fil rouge del linguaggio, dello stile visivo, nel tentativo di interagire sempre con questi dispositivi e a volte di saltare dall’uno all’altro come se fossimo appunto dentro a questa interconnessione universale. Nel film si passa dallo sguardo di uno smartphone in Corea a quello di un cellulare a Venezia, con passaggi realizzati come se stessimo viaggiando dentro a quei fili. L’idea di chiudere con la fine della meditazione derivava dalla sensazione di aver fatto un viaggio per certi versi onirico.

Il montaggio di Real di Adele Tulli

Ancora sul trasfert tra la meditazione del guru e la narrazione del film, c’è la scelta del montaggio che associa l’affermazione del Guru sull’universo che supporta la connessione all’immagine relativa all’aspetto più pratico dell’argomento e cioè alla costruzione dei cavi che permettono al sistema di funzionare. L’immagine delle mani che plasmano i materiali rimanda a una presenza quasi astratta, come se dietro quell’azione non ci fosse una presenza umana, ma lo spirito dell’universo.

Gli aspetti legati alle infrastrutture materiali che sostengono il mondo digitale mi affascinava molto. Avrei voluto girare anche altre sequenze relative a quelle che sono tra le scene produttivamente più complesse da fare perché relative a luoghi che sono chiaramente obiettivi sensibili e per questo super segreti. A essere affascinante è il fatto che questa realtà così astratta e totalmente virtuale e smaterializzata in realtà si basi su un’infrastruttura molto pesante, anche a livello di impatto sul pianeta. Parliamo di un aspetto che chiaramente nel film non viene elaborato più di tanto. Mi sarebbe piaciuto parlarne maggiormente per provare a mettere ancora di più l’accento sull’impatto ecologico che questo mondo immateriale ha sul paesaggio naturale. Detto questo il film mostra una fascinazione verso questi luoghi dove la presenza umana è davvero rara e in cui, come dici, laddove presente è ridotta a braccia che lavorano.

Real rilancia di continuo lo stretto legame tra carne e spirito, tra vita e tecnologia. Simbolica è l’immagine della ragazza all’interno del tunnel. Non solo i colori dell’ambiente corrispondono a quelli dei fili messi all’interno dei cavi digitali, ma lo stesso tunnel diventa la metafora della connessione contenendo al suo interno l’elemento umano a qui quest’ultima è diretta. 

In effetti è così. Parlando di tunnel mi è venuta in mente anche quella sequenza fatta in collaborazione con Gianluca Abbate, artista visivo che stimo moltissimo. Mi riferisco alla sequenza in cui vediamo frammenti di materiale preso in rete, un proliferare a volte assurdo e surreale delle presenze che abitano i nostri social media. In qualche modo quello è un po’ un momento cruciale del film in cui cerco di restituire la sensazione di caos digitale e ipersaturazione mediale in cui siamo immersi: mi riferisco a quella sensazione di entropia verso cui ci sta spingendo il proliferare infinito di contenuti, di informazioni, di espressioni, di manifestazioni di persone che possono in qualche modo esprimersi all’interno della rete. Il tentativo fatto con Gianluca era quello di rappresentarlo in un modo onirico.

Il futuro

Real ci dice che siamo nel futuro senza che ce ne siamo accorti. Una delle frasi spartiacque del film è quella relativa al fatto che diventiamo chi crediamo di essere. Il film ragiona molto su questa affermazione proponendo esempi di come il rapporto tra realtà fisica e realtà virtuale finisca per rivelare una parte altra di noi. Esemplare in tal senso sono i frammenti dedicati alla vita nascosta della sex worker in cui il passaggio dall’ego all’alter ego è piuttosto sorprendente e senza punti di contatto tra l’essere e l’apparire. 

Sì, in quel caso mi interessava provare a toccare alcuni aspetti dei nuovi lavori digitali. In particolare nel caso della camgirl, quello che trovo interessante è per esempio la relazione con i corpi, perchè nel mondo digitale l’unica cosa che non dovrebbe in qualche modo riuscire a essere sostituibile è il corpo, soprattutto nelle implicazioni con le sue relazioni intime. In qualche modo è interessante come invece anche questo sia sublimato: l’intimità digitale supera il corpo, per sua natura fragile e imperfetto, portando il desiderio nello spazio immateriale dello schermo. Nel caso della nostra sex worker ci racconta anche la solitudine e l’isolamento che si respira in questa società così iperconnessa. Parlandone con lei abbiamo focalizzato la fatica di portare avanti l’interazione senza avere un contatto corporeo e come questo possa provocare fenomeni di burn out. Non a caso la vediamo presente dentro questi spazi di meditazione organizzati dal guru che le consentono di recuperare parte delle sue energie. Il personaggio del rider YouTuber è invece sintomatico della illusoria sensazione di libertà offerta da queste tecnologie e dai lavori del mondo digitale. Per rendere sopportabile il suo lavoro di Rider fa Vlog in streaming e produzioni di contenuti digitali che gli danno la possibilità di avere un’interazione sociale. È come se facesse un secondo lavoro. Una volta arrivato a casa monta i video e li diffonde dando vita a una specie di loop infinito in cui non si capisce più se esiste una distinzione tra lavoro, performance e vita.

In Real le scelte fotografiche rispecchiano questa libertà con immagini cangianti e fluide, pronte a rimandare e a trasformarsi in qualcun altro e qualcos’altro. Le inquadrature scelgono punti di vista in cui la gravità sembra non esistere e dove l’occhio è continuamente preso in contropiede dalla metamorfosi delle forme.  

Sì, questa è stata la sfida più grande di questo progetto e forse è una di quelle di cui sono più contenta dei risultati. Come in Normal il tentativo era di entrare nei flussi di pensiero libero che chiaramente hanno dei punti di riferimento e dei momenti chiave in cui è l’immagine più che la narrazione a guidare lo spettatore. Quindi l’immagine e la forma, così come l’uso del suono fanno da guida a questi racconti. Mentre nel caso di Norman c’era un rigore estremo che serviva anche a entrare nel senso di artificialità della normalità di ogni giorno, qui la sfida era quello di entrare in questa realtà dissolta, distorta e sorvegliante propria del mondo digitale, così piena di potenziale immaginifico. Il rischio era quello di perdersi in queste innumerevoli possibilità di sguardi; la sfida quella di trovare un bilanciamento.

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Real

  • Anno: 2022
  • Durata: 90'
  • Distribuzione: Luce Cinecittà
  • Genere: documentario
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Adele Tulli