La traduzione dei sentimenti. L’analisi delle loro trasparenze, di quelle fessure che le emozioni riempiono di chiaroscuri, come le ombre di una timida grigia alba d’autunno. Un compito non semplice che ogni giorno attende all’animo umano. Un vissuto che si manifesta anche nel cortometraggio scritto e diretto da Fabiana Russo. Il suo Kore indaga tra le parentesi del dolore più grande per mettere in scena un difficile passo a due. Quello di un giovanissimo padre e di sua figlia, entrambi orfani di una parte di sé, costretti dalla vita a riscoprire il loro inscindibile legame di sangue. Una storia in interno, densa di pause e silenzi che ha la sua asperità nella costruzione dei dialoghi. Un aspetto fortemente teatrale che non sempre riesce a rendere l’intensità del profilo dei due personaggi. Kore, già presentato in anteprima mondiale al Torino Film Festival, in concorso all’Alta Marea Festival, è prodotto da Cattive Produzioni e Nuova Accademia delle Belle Arti.
Kore, la tensione narrativa
Tommy e Lea, padre e figlia, si trovano a vivere una nuova fase del loro rapporto, a doversi misurare con la difficoltà di esprimere quello che sentono l’uno per altro, senza più nessun filtro, senza essersi mai veramente conosciuti. È un passaggio obbligato. Sono ancor più consapevoli di dover essere famiglia, mentre le dolorose cicatrici che ne affliggono l’animo rendono arduo il compito delle espressioni. La tensione narrativa non si palesa mai in maniera immediata, concreta, istantanea. Si cela dietro il non detto, nelle pieghe di quella sensazione di disagio, di fatica a scorrere le pagine del quotidiano, a renderle il proprio presente. È il dopo racconto quello che certifica la consapevolezza d’esser rimasti complici di un generale senso di precarietà, alla ricerca di un caposaldo, di un’azione non esitante, capace di creare sedimenti nei remoti meandri del sensibile. Un concetto complice si fa tarlo nell’attenzione dello spettatore e lo conduce fin all’interno dei propri indiscussi reconditi ricordi. Lo rende partecipe, sodale e inconsapevole percettore di coscienza.

La forma del tempo e dello spazio
La macchina da presa di Fabiana Russo perimetra i confini del tempo filmico con una serie di intensi primissimi piani. Strumenti raffinati per svelare le stagioni dell’animo umano senza mai provare a scinderle, a renderle mero contesto. La semplicità delle piccole cose, dei gesti familiari. Tocca a loro farsi argine e definire il momento in cui il padre diventa tale e la figlia lo percepisce appieno. Un progetto complesso e di ardua realizzazione che, tutto sommato, compie l’intera sua parabola. Declinato dalla buona prova dei due protagonisti, Gianvincenzo Pugliese e Aurora Menenti, gli unici due interpreti in scena, e dalla fotografia di Filippo Marzatico, abile nel sottolineare le sfumature spigolose della luce. Kore definisce lo spazio come il diaframma di un gioco vincolato alle sue regole, per cui ogni respiro è uno scoprire territori nuovi di conquista e considerare strategie di avvicinamento. Vigono dinamiche precise da rispettare, quelle da sempre scritte nel libro delle relazioni umane. Solo attraverso esse la ricerca di se stessi e dell’altro può giungere a un inappellabile esito.