Quello che ci attende non è mai dettato da un principio certo, una prospettiva dalle linee indissolubili. Al contrario, spesso già si annida all’interno del nostro animo, setacciato dalle aspirazioni di differenti sensibilità. Giorno dopo giorno aspetta il momento giusto per rivelarsi e chiederci ragione di scelte e intenti. Ancor più, se di adolescenza si tratta, l’emozione confusa del diventare grandi soverchia la ragione e brama stille di presente. Labirinti di Giulio Donato prova a rappresentarne il senso con un lungometraggio tecnicamente affatto banale, costruito tra finzione e documento, tra realtà e sogno, senza mai cedere alle lusinghe del déjà vu. Un’opera coraggiosa, ricca di simboli, con qualche tratto acerbo, ma, nello stesso tempo foriera di un notevole pragmatismo formale. Qualcosa di più di un romanzo di formazione. Il tentativo di dare sostanza al flusso di sensazioni che governano la mente e l’animo di chi è chiamato a decidere del suo futuro e della sua identità. Presentato nello spazio Confronti delle Giornate degli Autori durante l’81 Mostra Internazionale Cinematografica di Venezia, Labirinti è prodotto da Francesco Cimpanelli per Life Cinema.
Dopo le tante lune passate a progettare la sua creazione con delusione trovò l’essere plasmato dal suolo, fatto di polvere ed erba, incapace di parlare o camminare. Appena in vita.
Labirinti
Labirinti, l’opaco senso dell’essere
È abile Giulio Donato nell’esplorare le corde sensibili delle relazioni umane, quelle che, soprattutto nell’adolescenza, governano le dinamiche del riconoscimento. I due personaggi principali, Francesco e Mimmo, sono l’espressione di un bel lembo di Calabria, la maggior parte delle scene sono girate a Vazzano, nel vibonese, brullo e aspro come le loro vite ancora in definizione. È in quei luoghi che si muovono i punti di svolta delle esistenze di questi ragazzi. Incassati in una specie di Labirinto vitale, tangibile nella ritualità dei processi sociali che li circondano, ma indefinito nel profondo dell’animo di ognuno di loro. Il regista ne introduce le sembianze con un espediente narrativo classico ma efficace. Nello sgombero di un vecchio appartamento finisce tra le mani di Francesco un libro il cui titolo è proprio Labirinti. La sua lettura introduce, paradaossalmente, il protagonista in una visione più completa, e complessa, del suo essere. È il momento in cui si palesa la necessità di una scelta. Il labirinto diventa lo spartiacque che direziona la vita dei due amici, costringendoli a delle decisioni importanti. Sullo sfondo realistico dei festeggiamenti per San Francesco da Paola si compiono le sintesi onnirico simboliche con i tratti di sceneggiatura che svelano a latere l’identità sessuale del protagonista.
Il linguaggio e le volontà composte
Nel solco del dogma più volte espresso da Roberto Rossellini, Labirinti traduce la realtà esprimendo il linguaggio più legato al territorio. Quel dialetto che la larga presenza di attori locali non professionisti contribuisce a rendere rifugio sicuro del semplice e naturale delinearsi della quotidianità. In esso stesso si compongono e si estrinsecano le volontà di tutti i personaggi. L’andamento della trama costruisce e concepisce le tessere di un mosaico personale che il protagonista, Francesco, incarna lasciando trapelarne gli intarsi con sempre maggior nitidezza. La trazione è determinata da un falso che acquista lo stesso rilievo della verità. Il Labirinti di Giulio Donato, il libro che innesca il punto di svolta del protagonista, è una pura invenzione. Un artificio creato ad hoc che, tuttavia, potrebbe ben rappresentarsi nell’omonimo testo d’arte di Hermann Kern che contiente quello che è forse il sunto più pertinente della pellicola: nel labirinto non ci si perde, nel labirinto ci si trova.
Il mondo è un labirinto dal quale è impossibile fuggire
Jorge Luis Borges
Tecnica e interpretazioni
Le molte sequenze con la macchina a spalla, la fotografia di Lorenzo Scudiero, le musiche di Pierluigi Orlando, il montaggio di Francesco Tasselli. Tutto volge direzionato nel fomentare le curve dei sentimenti contrastanti che investono i rapporti adolescenziali di Francesco e Mimmo. La tecnica mette al servizio dei personaggi il surrogato adeguato per rendere il compito attoriale di Francesco Grillo e Simone Iorgi, i due ottimi interpreti principali, il più agevole possibile. Nonostante la poca esperienza e la prima prova di lungometraggio, il loro pathos incide e disegna, con lenta e inesorabile dedizione, quella frattura esistenziale che inevitabilmente conduce al mondo adulto. Attraversano il tempo filmico con la piena consapevolezza del loro ruolo rendendo i punti di svolta un passaggio naturale di un’esistenza in bilico sulla traccia irrisolta di scelte decisive.