fbpx
Connect with us

Interviews

Frontiere violente, parla la vincitrice del Visions du Réel: Nicole Vögele racconta ‘The Landscape and the Fury’

La regista svizzera indaga la violenza che impregna il paesaggio al confine tra Croazia e Bosnia-Herzegovina tra guerra e migrazione

Pubblicato

il

The Landscape and the Fury, frammenti di fotografie su suolo bagnato con foglie

Non è l’ennesimo film di frontiera. The Landscape and the Fury della regista svizzera Nicole Vögele, vincitrice del Grand Prix al Visions du Réel 2024, è al confine di tante cose – ma non è un semplice documentario sui movimenti migratori tra Croazia e Bosnja-Herzegovina. Lì, le meravigliose foreste su cui trascorre la macchina da presa in campo lungo, occasionalmente addentrandosi nella notte, sono anche suture di un paesaggio che addensa una violenza palpabile. Il ricordo della guerra, pronto fisicamente ad esplodere anche nel suolo punteggiato dalle mine, incrocia il presente drammatico dei respingimenti alla frontiera. Il viaggio, o la fuga, dei migranti dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afghanistan o dal Burundi, riecheggia delle stesse note avventurose e talora tragiche dei bosniaci che fuggivano da un paese assediato.

Al secondo lungometraggio dopo Closing Time, Nicole Vögele scruta in The Landscape and the Fury le viscere del paesaggio, tra il dolore della memoria e l’urgenza del contemporaneo. L’abbiamo intervistata per capire di più del suo film, del nostro tempo, della rotta balcanica e forse, più in generale, di Europa.

La trama di The Landscape and the Fury

Lungo il confine bosniaco-croato vicino a Velika Kladuša si incrociano le strade degli esperti di sminamento, delle famiglie migranti e della gente del posto. La regista Nicole Vögele approfondisce questi incontri, mettendo a nudo le ferite della guerra degli anni Novanta e quelle dei rifugiati di oggi. Un film profondamente tellurico, un caleidoscopio di paesaggi tormentati dalla furia del passato e del presente. (Fonte: sinossi ufficiale dal sito del Visions du Réel)

Il trailer di The Landscape and the Fury

The Landscape and the Fury è prodotto da Beauvoir Films con SRF – Schweizer Radio und Fernsehen (produttori Aline Schmid e Adrian Blaser).

L’intervista: Nicole Vögele parla di The Landscape and the Fury

IN FUGA PER LA VITA

Il tuo film inizia in fuga: una sequenza notturna in cui ci si sente braccati, si ansima, facendo crocchiare le foglie al passo svelto che fende la foresta di notte. Cosa volevi che contenesse, o scatenasse, il prologo di The Landscape and the Fury?

Mi interessava generare un sentimento universale. All’inizio non volevo che The Landscape and the Fury apparisse come il classico film di migrazione. Ecco perché nel prologo c’è genericamente la tensione della fuga, senza specificare se si fugga da un cane pericoloso o dalla guerra. Credo che ognuno di noi possa immedesimarsi o almeno capire come ci si senta a correre in un paese straniero, in una foresta che completamente buia nella notte col rischio di essere scoperti. Questo è ciò che i migranti affrontano spesso quando cercano di fuggire. Ci sono altre parti del film, oltre al prologo, in cui ho cercato di suscitare questo sentimento. L’ho fatto anche col montaggio, ma effettivamente ho voluto farlo provare sin dall’inizio. Volevo si entrasse nell’animo di persone che sono in guerra e che cercano di capire dove andare, di persone che scappano.

È praticamente una fuga in soggettiva. Perché non hai mostrato fisicamente il corpo di qualcuno che fugge?

È come se non si trattasse di una persona specifica, non è un personaggio. È piuttosto l’anima di coloro che si sono persi in una foresta e hanno bisogno di nascondersi, il che dovrebbe in un certo senso unirci. Anche lo spettatore deve trovarsi a vagare.

DOVE FINISCE L’EUROPA (E INIZIA IL CINEMA)

Può sembrare scontato, ma è quasi inevitabile farti una domanda sul titolo. Il paesaggio è indubbiamente protagonista: in cosa c’è la sua furia?

Ho lavorato per molto tempo in questa foresta come giornalista investigativa, perché documentavo le violenze di confine compiute dalle forze di frontiera, soprattutto croate, in modo illegale. Quali unità di polizia deportano i migranti? Quali strade percorrono per riportarli indietro? Come usano i manganelli per mettere in atto la violenza? Per capire tutto ciò, ho trascorso mesi in zone remote della foresta, in mezzo al nulla. Ne ho dedotto che c’è un confine in mezzo al nulla della foresta: si tratta del confine esterno dell’UE, ma non c’è nulla lì. Un albero dieci metri prima è nell’UE, dieci metri dopo è fuori. ma niente che lo segnali. Più passavo il tempo lì, più mi rendevo conto che sono proprio i punti in cui ora avvengono questi respingimenti illegali. E sono, tra l’altro, le zone in cui il conflitto era più acceso durante la guerra di Bosnia.

Credo allora che la mia mente abbia iniziato a girare intorno a questa domanda: può un paesaggio essere carico di furia, di rabbia, di violenza? Come mai questa collina verde, che dall’esterno sembra solo una bella collina verde con degli alberi, si trova come in un continuum di violenza che si svolge sul suo suolo? Col giornalismo, non si può arrivare a capirlo. Avevo bisogno di aggiungere al reportage la mia visione cinematografica, perché è qualcosa che aleggia, che è nell’aria, che è nell’energia universale che giace in questo luogo. Ma il problema era solo cambiato: come si fa a fare un film su qualcosa che è invisibile? The Landscape and the Fury è il mio tentativo di rispondere a questa domanda.

COS’È UN CONFINE?

C’è una domanda complementare: come si fa a girare un film in una zona frontiera? Al confine accadono cose particolari. Ci sono pezzi di vita, più che storie complete. Ricordo una scena, completamente immersa nel buio, in cui avvertiamo a stento pezzi di dialoghi, le urla di una donna – ma non distinguiamo cosa stia succedendo. Hai assunto una qualche “strategia del confine”? Come ti sei mossa per raccontare atmosfere più che storie?

Cos’è un confine? Può sembrare una domanda ingenua, ma è la domanda chiave del film. Noi essere umani ci presentiamo in un luogo, tracciamo una linea da qualche parte sulla terra e diciamo: ora questo è il confine. Che è un modo per dire: a te è permesso di stare lì e a te non è permesso di stare lì. È qualcosa di totalmente assurdo. In queste zone ho trascorso, secondo quanto ho calcolato circa sette mesi. Questo vuol dire che ho dovuto far caso a molti dettagli, compreso il suono delle auto quando sono di pattuglia o di un gruppo di persone che sta cercando di camminare nella foresta.

The Landscape and the Fury, bikers al confine

The Landscape and the Fury, bikers alla frontiera

A un certo punto non bastano gli occhi: si inizia a usare le orecchie, si mobilitano i sensi. Ci sono tanti livelli nella progettazione del suono. Spesso si sentono discorsi radiofonici della polizia, o comunque si avverte sempre la presenza delle guardie di frontiera perché la foresta è silenziosa. Si odono suoni da molto lontano, a volte anche di aerei Frontex, che però raramente si possono vedere.

VERSO L’EUROPA E RITORNO

Ma gli occhi servono, eccome. In un modo che mi ha ricordato il ventre dei barconi carichi di oggetti dei migranti in Fuocoammare di Gianfranco Rosi, hai posato il tuo sguardo cinematografico, in sequenze silenziose e prolungate, sugli oggetti lasciati dai migranti su quei sentieri, tracciando quasi mappe visive con i lacerti esistenziali.

La prima cosa a cui ho dovuto allenare l’occhio è consistita nel capire se dieci persone di passaggio lì fossero solo persone che passeggiavano o migranti respinti. Ho imparato a riconoscere questa gente che cercava di raggiungere l’Europa, ma che veniva rispedita indietro senza niente: persone a cui hanno tolto tutto. Seguendo le loro tracce, ho iniziato a raccogliere molti dei loro oggetti. Il montaggio è durato piuttosto a lungo, circa 10 mesi, proprio perché ho dovuto in qualche modo ricostruire questa atmosfera come una vera e propria investigatrice. Ho tracciato la topografia di un luogo di deportazione, dove puoi trovare vestiti, telefoni rotti sul pavimento, scarpe. Si capiva facilmente se in un luogo le persone si fossero semplicemente fermate a dormire, oppure se fossero state respinte in maniera illegale e violenta.

Eppure, quelle zone non sono isolate, c’è gente che vive lì, nei pressi. Come sono entrate anche le persone del posto nel tuo racconto?

Più si conoscono quei luoghi, più ci si rende conto che c’è gente che deve semplicemente coltivare la terra accanto a zone violenza quotidiana, e che questa gente già conosceva la violenza perché aveva sofferto la guerra in Bosnia. Ogni mattina devono vedere gocce di sangue da qualche parte. Qui, nella notte, dei migranti possono essere picchiati proprio dove uno di loro, magari, nella boscaglia, con la pistola aveva combattuto anni prima cercando di proteggere il proprio paese. Ecco ciò che ho cercato di fare con The Landscape and the Fury: catturare questa strana atmosfera fatta di più livelli.

CAMPO MINATO

Infatti, a livello visivo non ci sono solo i resti dei migranti. Nella tua macchina da presa entrano anche mine, crateri di bombe, carrarmati. Anch’essi fanno parte del paesaggio. Volevo chiederti innanzitutto se sia stato pericoloso girare in quelle zone, e quindi come abbiate gestito le riprese a livello pratico e di sicurezza, ma anche come tu abbia gestito a livello simbolico questi segni visivi.

Ho imparato abbastanza in fretta che la Bosnia in generale, ma soprattutto questa zona, è l’area più minata del continente europeo, almeno prima dell’inizio della guerra in Ucraina. Devo confessare che non ne sapevo molto. È stato scioccante apprendere che a distanza di trent’anni da quel conflitto ci sono foreste piene di mine, ancora da sminare. Dal punto di vista pratico, dovevamo capire in quali aree ci fossero ancora i fili d’inciampo, e quindi non fosse possibile andare, e in quali, invece, si potesse girare in condizioni di sicurezza.

Ora, il punto è che la polizia croata ha iniziato a respingere migranti mandandoli praticamente in un campo minato, che forse ha un sentiero escursionistico che lo attraversa. È assurdo. Da qualche parte a Zagabria, si raccolgono persone che volevano chiedere asilo, le si mettono su un camion enorme e le si trasportano per quattro ore nel posto più remoto del mondo, oltre un fiume, dove ricomincia la Bosnia. Penso sia indicativo della situazione di questo Paese. Ci sono parti in cui la pelle del paesaggio è ancora scoperta, le ferite non si sono cicatrizzate, ma al massimo si è formata un po’ di crosta.

METTERSI NELLE SCARPE DEGLI ALTRI

Oltre alla pelle del paesaggio, che porta ancora i segni della guerra, cosa mi dici della mente e del cuore delle persone? La guerra è presente anche nei discorsi, come memoria, come sentimento che si risveglia. Una donna, ad esempio, dice: “perché arrivano Cinesi e Giapponesi? Non sono in guerra”.

Penso che vedere i migranti in fuga sia un fattore scatenante per le persone del posto. A volte si siedono e piangono perché i loro ricordi di guerra sono ancora freschi. Credo proprio che la presenza di tutti quei punti di innesco lì funzioni come una metafora molto eloquente.

Usiamo proprio la guerra come ponte per un’altra questione: l’accoglienza. In un’altra scena domestica, una donna afferma che è importante offrire del cibo e assistenza ai rifugiati, ricordando come anche il suo popolo vagasse senza meta per fuggire dalla guerra. Da ciò che hai mostrato in The Landscape and the Fury, emerge una comprensione, persino un’empatia dei bosniaci nei confronti dei migranti. È così, o fuori campo hai registrato una gamma più varia, che comprende anche indifferenza e ostilità?

C’è una cosa che mi è rimasta impressa molto presto. Lavoro in varie forme sulla rotta balcanica da quasi sei anni o ogni volta che parlo con i rifugiati, o con le persone in movimento, come le chiamiamo noi, chiedendo: “ehi, sei passato per la rotta balcanica, com’è stato attraversare i diversi Paesi?”, loro rispondono sempre che la Bosnia è la migliore. Lo dicono anche quelli che sono passati in Italia. La Bosnia è anche l’ultimo paese musulmano che attraversano, quindi penso che sia anche abbastanza logico da spiegare: c’è sicuramente un legame in più dal punto di vista religioso. Molti di quei rifugiati sono afghani, pakistani o siriani. I bosniaci sono molto sensibili verso le persone che non hanno una casa o sono in fuga. Sento sempre questa frase: “Sono come noi trent’anni fa”. Trent’anni sono pochi. Chi ha più di quarant’anni lo ricorda facilmente.

The Landscape and the Fury, donna che taglia la legna

The Landscape and the Fury, una donna taglia la legna a pochi metri dal confine dove passano i migranti

Questo ha generato all’inizio molta solidarietà, ma devo anche dire che col passare degli anni è subentrata un po’ di stanchezza. Qualcuno li ha scacciati o è stato più cattivo con i rifugiati. Non tutti danno da mangiare o danno dei soldi. Ci sono persone in Bosnia, come una donna che mostro due volte tagliare la legna, che vivono a poche centinaia di metri dal confine e vedono passare cinquanta persone ogni giorno. La Bosnia è un paese con una situazione economica molto difficile, si vive anche solo con 100 o 200 euro al mese. Non ci sono molte cose che si possono condividere. Ciononostante, ho visto con i miei occhi diverse volte che le persone disposte a dare i loro ultimi vestiti, specie se incontrano persone bagnate d’inverno, che hanno attraversato fiumi e devono camminare ancora per giorni.

C’è qualche episodio in merito alla solidarietà verso i migranti che puoi raccontarci, tra quelli non confluiti in The Landscape and the Fury?

C’è un aneddoto abbastanza simpatico. Un uomo mi raccontava che gli era capitato almeno tre volte di regalare il suo ultimo paio di scarpe, quelle che aveva ai piedi. Era un vecchio contadino. Diceva: “Io posso comunque guidare la mia auto con i calzini fino alla città successiva per comprare delle scarpe nuove”. C’è una grande solidarietà nei confronti delle persone che si spostano. Un abitante del luogo non va a pensare che queste persone ruberanno una mela dal loro albero perché hanno fame, oppure ruberanno le loro scarpe o la loro televisione. Sanno che si tratta di gente di passaggio, che ha la missione di raggiungere un posto dove chiedere asilo.

Quindi, sì, c’è grande sostegno; ma non volevo soffermarmici troppo. È più qualcosa che senti nell’aria. Hai dieci pomodori in più e magari vai nel vecchio edificio scolastico dove sai che vive una famiglia e glieli porti; ma non per questo sei diventato un grande amico dei rifugiati. È più  come se vivessi con loro.

VOCI SENZA VOCE

Mi ha colpito un aspetto tecnico del tuo film: alcuni dialoghi non sono udibili, molte riprese sono a distanza. Perché questa necessità di prendersi uno spazio rispetto alle persone che attraversano il tuo film?

Quando fai il ritratto di un paesaggio, alla fine anche le voci delle persone sono semplici suoni. Nel girare un film di tipo “sensoriale”, che mobiliti, cioè, i sensi, per me come cineasta è molto importante l’uguaglianza di tutto. A livello del suono, devo livellare tutto. Una voce può anche essere una melodia, un suono pericoloso può anche suonare caldo. Non sono fatti o informazioni. Il linguaggio è una nostra invenzione, ma non copre la totalità dell’esperienza. Sto provando a spiegarlo, ma c’è da dire che io lavoro in modo molto intuitivo. La scelta di non rendere comprensibili i suoni mi è sembrata quella più giusta. Altre volte, però, e sempre in maniera intuitiva, ho cercato di bilanciare con scene in cui ci sono semplicemente delle donne che parlano e si sente ciò che dicono. Non volevo fossero tutti suoni provenienti da una foresta buia.

LA DURATA È TUTTO

Appartiene probabilmente alla sfera dell’intuizione anche la valorizzazione, in The Landscape and the Fury, del fattore “durata”. Gli stacchi sono pausati, molte scene sono insistite, su certe inquadrature ci si sofferma per più tempo. 

Sì, è frutto dell’intuizione, ma l’intuizione, quando si lavora così a lungo su un progetto, non viene direttamente dallo stomaco: vuol dire anche voler provare delle cose. Attraverso una serie di tentativi, abbiamo capito che c’è un certo quantitativo di tempo che è necessario trascorrere in certi spazi. Solo così si può fare esperienza di un paesaggio o di un angolo della Bosnia. Il luogo inizia a vivere dentro lo spettatore, lo risucchia; si comincia a pensare a un livello più profondo. Avevo bisogno di questo tempo. Anche se molte persone, che pure hanno gradito il film, si lamentano del fatto che sia troppo lungo, alla fine è qualcosa che ripaga.

È sempre una questione delicata quella del montaggio nei documentari: cosa fare delle tante ore di filmato, che ritmo scegliere. Come l’hai gestita, per non ottenere un effetto respingente? Viviamo una società dai ritmi così convulsi che c’è anche chi potrebbe considerare delittuoso un film troppo lungo.

Onestamente ho cercato, almeno per mezzo anno, di rendere la prima ora di The Landscape and the Fury un po’ più scorrevole, un po’ più divertente: un po’ più come sono anche io. Dopo la prima ora, per fare in modo che il film funzioni, si inizia a vagare in questa zona – meglio ancora: si inizia ad abitare quest’area. Ognuno comincia ad avere le proprie antenne, a percepire quello che succede. Mi piace molto che non debba essere il regista a dirtelo apertamente. So che può sembrare un commento generico sul tema del cosiddetto “cinema lento”, ma per me è stato davvero il modo in cui offrire un’esperienza. Ed era l’unico modo che ero in grado di praticare.

Una manipolazione del tempo, però, ci sarebbe anche in un altro senso: il film è diviso in capitoli che rilanciano ciclicamente le stagioni. Che valore ha per te questa scelta?

In fase di editing mi sono resa conto del fatto che avevamo coperto due inverni, ma una sola primavera. Mi è piaciuta molto l’idea di ripercorrere un ciclo che indica che il ciclo si ripete. Penso che le stagioni chiudano un po’ il cerchio rispetto a quando mi chiedevi del perché certe volte la voce sia udibile solo come suono senza distinguere i dialoghi: è l’uguaglianza di ogni cosa. Anche la stagione è un personaggio; le pecore sono sempre le pecore, camminano sulla stessa terra, dove c’è sempre quel carrarmato abbandonato allo stesso posto. Non chiedo all’inverno di tornare: torna e basta. E torna la violenza, tornano i migranti. Arriveranno domani, o una settimana più tardi, così come arrivano le stagioni.

 

Scrivere in una rivista di cinema. Il tuo momento é adesso!
Candidati per provare a entrare nel nostro Global Team scrivendo a direzione@taxidrivers.it Oggetto: Candidatura Taxi drivers

The Landscape and the Fury

  • Anno: 2024
  • Durata: 138'
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Svizzera
  • Regia: Nicole Vögele