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Kiyoshi Kurosawa e la rappresentazione dell’orrore quotidiano

Tre film per raccontare il maestro del J-Horror Kiyoshi Kurosawa che ha rappresentato l'orrore che si annida intorno a noi

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Tra i grandi nomi del cinema giapponese e mondiale degli ultimi trent’anni non possiamo certamente non menzionare Kiyoshi Kurosawa. Classe 1955 e originario di Kobe, Kurosawa è stato inizialmente acclamato come regista a livello internazionale grazie al suo immenso contributo alla rinascita del J-Horror negli anni Novanta. Grazie ad opere come Sweet Home, Cure e Pulse il suo nome è diventato noto presso i più importanti festival di cinema a livello mondiale e ha contribuito a diffondere il cinema giapponese internazionalmente. Ma Kurosawa Kiyoshi non è solo questo. La sua meticolosa attenzione alla regia lo ha portato ad esplorare profondamente l’animo umano e a rappresentarne l’orrore che ognuno di noi vive nel quotidiano, in ogni sua declinazione.

La sua produzione non si è fermata ai J-Horror; Kurosawa raggiunta la fama ha continuato a sperimentare con nuove forme ed è sempre riuscito a raccontare un’umanità ferita e sofferente, ma sempre sopravvissuta. Oggi presentiamo tre opere che possiamo considerare la filmografia essenziale per chi si approccia per la prima volta all’horror di Kurosawa Kiyoshi. Tre film che ci parlano di un terrore che esce sempre più dalla metafora e che arriva ad insinuarsi nel quotidiano.

Sweet Home, Kiyoshi Kurosawa – 1989

Sweet Home è il primo film con cui Kurosawa Kiyoshi esce allo scoperto. Nella prima parte della carriera si era dedicato a realizzare film chiamati pinku-eiga. Si tratta di film di genere erotico softcore divenuti popolarissimi soprattutto nel corso degli anni Ottanta, un periodo difficile anche per le maggiori case produttrici giapponesi. Esse infatti avevano constatato una perdita del proprio potere economico a causa della diffusione del mercato home-video che faceva concorrenza alle sale cinematografiche.

I pinku-eiga dovevano rispettare alcuni parametri indicati dal produttore, come ad esempio un numero di scene di sesso già fissato. Il regista era tenuto a rispettare queste richieste fondamentali della produzione, ma per il resto poteva trovarsi in una condizione di quasi totale libertà creativa. Per questo motivo i pinku rappresentarono una palestra di sperimentazione artistica ed espressiva per molti registi di quegli anni, tra i quali (oltre a Kurosawa Kiyoshi) ricordiamo  anche Kōji Wakamatsu e Tetsuji Takechi.

I primi passi nell’horror

Sweet Home è il primo horror vero e proprio diretto da Kurosawa. La premessa non è particolarmente originale. Una troupe cinematografica si addentra in una villa abbandonata in cui sembrano esserci alcuni affreschi dipinti dall’artista Ichirō Mamiya. Una volta entrati vengono però perseguitati dallo spirito vendicativo della defunta moglie di Mamiya. Il poltergeist che tenta in tutti i modi di annientare i protagonisti ha un passato tragico e soffre immensamente per la perdita prematura del proprio figlio, morto in un tragico incidente. Fin qui nulla di nuovo.

Con l’evoluzione della storia il film prende un passo sempre più serrato e culmina nel finale in cui i protagonisti affrontano direttamente il demone della moglie di Mamiya. La pellicola è tutta basata sugli effetti grafici e sulla resa sullo schermo del demone vendicativo. Non a caso il trucco prostetico del grande animatronic del demone fu affidato al maestro Dick Smith, entrato nella leggenda come make-up artist per L’Esorcista e fresco dell’Oscar per Amadeus nel 1984.

Sweet Home dunque si è ritagliato un posto di tutto diritto negli annali del J-Horror. Tuttavia, inizialmente non aveva goduto di grande successo fuori dal Giappone a causa della mancata distribuzione internazionale. Molti però lo conoscono indirettamente, poiché il format di Sweet Home ha ispirato la saga di Resident Evil, uno dei videogiochi horror più famosi di sempre.

Nel frattempo la carriera di Kurosawa Kiyoshi come regista si è finalmente avviata, e qualche anno dopo arriverà al successo con uno dei suoi film più noti, Cure.

Cure, Kiyoshi Kurosawa – 1997

Cure è il film che cambia tutto. Non ha solo il merito di aver portato Kurosawa alla ribalta come uno dei più noti registi giapponesi a livello internazionale, ma oggi è considerato anche uno dei film capostipite del genere J-Horror degli anni Novanta. Nel film siamo a Tokyo e alcune persone vengono trovate morte con uno strano simbolo inciso sulla pelle. Nonostante il modus operandi sia lo stesso per tutte le vittime, si scopre che gli omicidi sono stati perpetrati da persone diverse. Gli autori del crimine infatti sono stati sempre ritrovati poco dopo il fatto in stato confusionale. Il cupo detective Tanabe indaga sugli omicidi e rimane invischiato in una spirale che turbina tra il paranormale e l’ordinario.

Il nemico è tutto umano e agisce attraverso la mente. Il fatto che l’orrore provenga dall’interno rende la violenza ancora meno controllabile e produce reazioni di follia estrema in coloro che tentano di controllarlo. Cure si avvale inoltre di citazioni a grandi capolavori del genere tra cui Il silenzio degli innocenti, ad esempio nella scena dell’interrogatorio. Oltre alle più evidenti tematiche riprese dal genere horror, qui c’è qualcosa di più profondo. Il male è interno alla società, è subdolo e si propaga senza modo di porvi rimedio. L’idea che ogni persona sia capace di compiere il male e che la fonte della violenza sia una sorta di epidemia silenziosa sono tutte idee che si rifanno al clima che il Giappone stava vivendo in quel periodo.

Un periodo di fragilità sociale

Il Paese era infatti scosso dallo scoppio della bolla speculativa che era avvenuto alla fine degli anni Ottanta e che aveva portato al collasso un sistema economico che fino a poco prima sembrava solido e prospero. Inoltre, l’attacco alla metropolitana di Tokyo con gas sarin avvenuto nel 1995 da parte della setta buddhista Aum Shinrikyō era stato un evento traumatico. Il fatto che gli attentatori fossero tutti giapponesi aveva contribuito a creare un clima di terrore e incertezza per il quale il male poteva insidiarsi ovunque e poteva provenire anche dall’interno della società.

Il tema del contagio è rappresenta una modalità narrativa tipica del J-Horror. Anche in Ringu c’è una sorta di morbo mortale che si diffonde a macchia d’olio e sembra non avere risoluzione positiva. L’instabilità che si vive in Giappone alla fine degli anni Ottanta è vissuta anche nel film. Siamo pervasi da un senso di disagio costante nato dal fatto che è tutta la società ad essere malata e marcia. La violenza e la follia non possono essere sconfitte definitivamente ma solo trasferite da una vittima all’altra.

Tokyo Sonata, Kiyoshi Kurosawa – 2008

È con Tokyo Sonata che Kurosawa sposta definitivamente il focus dell’orrore dal paranormale fino a giungere alla completa normalità. Anche qui, la premessa è semplice, quasi banale. Un uomo, padre di famiglia, perde il lavoro, ma decide di non rivelarlo subito alla moglie. Ciò dà inizio ad una rete di bugie che rappresentano tutta l’incomunicabilità all’interno del nucleo familiare e che porterà alla sua dissoluzione. Il film ha ricevuto il premio della giuria della sezione Un Certain Regard del 61º Festival di Cannes.

In Tokyo Sonata l’orrore è rappresentato dalla completa distruzione di una famiglia, il nucleo fondante della società, che subisce gli effetti dello scoppio della bolla speculativa. Spesso è stato definito il film più raccapricciante di Kurosawa in quanto non ha bisogno di mostrare né demoni né fantasmi. È un film terrificante e perfetto perché parla unicamente di noi.

L’orrore quotidiano

L’azienda, che nel dopoguerra aveva rappresentato una sorta di padre esterno alla famiglia, che provvedeva ad ogni bisogno del dipendente, ora appare nel pieno della crisi. Il padre-azienda non può più permettersi di sostenere i propri figli e preferisce invece cercare manodopera a basso costo per sostituirli. Il film è una rappresentazione essenziale di quella che è stata definita la kakusa shakai, una società in cui c’è una profonda disparità tra ricchi e poveri, tra occupati e disoccupati. In questo contesto l’identità dei personaggi principali viene man mano frantumata durante il film e tutti sono costretti a venire a patti con le proprie reali essenze.

Ciò che ci fa paura è la rappresentazione grottesca dell’incomunicabilità e dell’allontanamento gli uni dagli altri. Se nei film horror precedenti Kurosawa aveva giocato sulle metafore, rappresentando il male allo stesso tempo come un outsider e come un partecipante attivo alla società, con Tokyo Sonata cadono tutte le maschere. Non c’è più spazio per la metafora e per l’interpretazione artistica. Tutto quello che resta è l’orrore del quotidiano.

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