Skinamarink è un film indipendente diretto da Kyle Edward Ball disponibile in streaming su Prime Video, nella sezione Midnight Factory.
C’è una casa, anzi un appartamento. È notte, e nella casa vivono (almeno) due bambini (fratelli?), un padre e una madre.
Non c’è niente altro di certo sulla trama, anzi sulla composizione narrativa della messa in scena di Skinamarink, piccolo film indipendente che ha riscosso un relativo successo soprattutto tra gli appassionati e i critici. Perché è un’opera desueta in un periodo e in un panorama cinematograficamente asfittico dal punto di vista creativo, e perché riporta con prepotenza alla ribalta la potenza del cinema come video e audio insieme. senza niente altro, scavalcando anche la trama. E riuscendo a suscitare emozioni.
La cosa più vicina a Skinamarink, giusto per far capire a chi legge in che zona ci troviamo, è The Act Of Seeing With One’s Own Eyes, di Stan Brakhage: perché il lungo di Bell è uno di quei film capitali che capitano una volta ogni decennio, opere assolute nel linguaggio come Begotten di Edmund Elias Merhige e Martyrs di Pascal Laugier.
IL CINEMA CHE OSA
In greco, autopsia vuol dire “vedere con i propri occhi” (in inglese, letteralmente, seeing with one’s own eyes): per questo l’accostamento con Brakhage, uno dei maggiori e più influenti filmmaker sperimentali del XX secolo, è pertinente e decisivo, perché l’impianto di Skinamarink come di quello di Brakhage non sono classificabili, stilisticamente influenzati dagli scritti di Ėjzenštejn e dai film di Jean Cocteau.
Il regista de La corazzata Potëmkin (Bronenosec Potëmkin, 1925) formulò la teoria delle attrazioni nel 1923, che l’anno successivo adattò al cinema, secondo il cosiddetto montaggio delle attrazioni: con questo procedimento si scuoteva lo spettatore con una sorta di violenza visiva, che lo sollevasse dall’assorbimento passivo della storia suscitando emozioni e nuove associazioni di idee. E questo spesso con scelte strane e -apparentemente?- incongruenti, in sequenze dove tutto è disordinato, incompleto, scomposto, e chi guarda deve fare uno sforzo attivo per ricomporre il senso della storia e dei personaggi, assimilando la teoria degli stimoli, con l’intelletto che lavora completando le figure inquadrate magari anche parzialmente.
Bell fa suo l’insegnamento, con Skinamarink addirittura tenta di portare all’estremo le teorie di Ėjzenštejn: perché i 107 minuti sono sforniti di qualsiasi appiglio logico, non hanno una consistenza narrativa che non sia quella soggettiva di un soggetto non identificato.
Inquadrature fisse che incorniciano piccoli frammenti di un appartamento notturno: nel buio, si accendono ogni tanto delle luci e delle torce che illuminano squarci quotidiani che sembrano alieni.
Un angolo di cornicione, una tv accesa, una porta che si apre nella notte – a camera fissa, senza nessun commento che non sia quello interiore dello spettatore, Skinamarink va avanti per ellissi incomprensibili e mette insieme un collage inquietante proprio perché riferibile a tutto e a niente.
Mentre si delinea, sullo sfondo, una vaghissima idea di due bambini senza genitori, un ipotetico incidente per le scale, l’assenza di una madre, porte finestre water che appaiono e scompaiono, una voce che invita i bambini a giocare. Un grumo emotivo oscuro che si appiccica sulla coscienza e invita a inventare quello che è nascosto nei coni d’ombra della coscienza.
L’ATTO DI VEDERE NEL BUIO
L’atto di vedere di Brakhage diventa una prova di resistenza soprattutto per l’occhio dello spettatore, che deve osservare un buio screpolato dalle imperfezioni di una pellicola che sembra uscita dagli anni 80: eppure non c’è nessuno sforzo diegetico, non c’è la scusa del found footage o del mockumentary e tutto allora assume forme opalescenti e per questo ancora più terrificanti.
Il tutto in una deriva di presenze/assenze che pendono sugli occhi di chi guarda letteralmente ipnotizzato da uno spettacolo vertiginoso, che sfrutta appieno la potenza delle immagini: non in movimento, ma semplicemente associate ad un audio anche dissonante e slegato con il quale però spinge a pensare, ad immaginare, a costruire propri mondi spaventosi per riempire gli angoli vuoti.
Dice Andrea Minuz, docente di cinema: “Cosa fa la regia di un film arthouse? Inquadrature “sporche”, tempi dilatati = durata media delle inquadrature alta (ben al di là del tempo di lettura dell’immagine); pochi dialoghi (e raramente memorabili/citabili – perché deve restare impressa “l’immagine”); poca musica, meglio se in presa diretta. Questi sono dei cliché – che non è una parolaccia, ma vuol dire che se non s’intravede nessuno di questi elementi si fatica a considerarlo un film da “festival”/”arthouse”. Questo bisogno di “sottrazione” e “disarmonia” si regge su due o tre coppie oppositive: Pieno vs Vuoto; Veloce vs Lento (i media ci riempiono di immagini, il cinema le scarnifica; i media sono veloci, il cinema d’autore oppone la lentezza o la “decrescita felice” di Rohrwacher). Al fondo, c’è l’idea che la contemplazione si associ al “pensiero” e la velocità (per dire, la playstation) al rincoglionimento.”
Skinamarink spaventa, prima di tutto; e poi stupisce per l’arditezza sintattica e creativa in un mondo preso dal consumo veloce e velocizzato, per la freddezza e il disincanto, ma soprattutto per il forzato e incredibile e radicale realismo che gli fa da perno e contrappunto e che costituisce il grimaldello per interpretare il film. Pur rimanendo un assunto di base: non c’è niente da interpretare. Solo da vedere.