In Come pecore in mezzo ai lupi Andrea Arcangeli si spoglia di ogni retorica per raccontare la fragilità di un uomo consumato dalla fame di vita. Con lui abbiamo parlato della metamorfosi fisica e psicologica necessaria a diventare altro da se.
– Foto di copertina: Paolo Palmieri –
Andrea Arcangeli in Come pecore in mezzo ai lupi
Il personaggio di Bruno in Come pecore in mezzo ai lupi è di quelli che nella tua carriera può fare la differenza perché permette di vederti in una veste drammatica per molti versi inedita. Nella prima scena in cui è presente il tuo personaggio la sua faccia è coperta da un passamontagna. In un film in cui tutti nascondono la loro vera identità Bruno inizialmente lo fa in maniera eclatante, salvo poi essere quello che più degli altri sarà spogliato di ogni maschera per mostrare la sua vera anima.
Hai colto un punto centrale della sceneggiatura. In un certo senso era anche voluto che Bruno all’inizio presentasse il suo lato oscuro in maniera palese, attraverso il passamontagna che ne rivela l’attitudine criminale. Questo doveva fare da contrasto all’estrema umanità di Bruno che, per indole, è uno che non si è mai nascosto. Il suo essere diretto e istintivo lo rende vulnerabile conferendogli una purezza che l’ha messo spesso in crisi nel corso della vita. Dunque sì, il parallelismo di cui parli esiste ed è una parte importante del film.
Foto di Andrea Pirrello
La sceneggiatura prima di tutto
Per come hai fatto riferimento alla sceneggiatura mi sembra di capire che quella sia stata la bussola di cui ti sei servito per incontrare il tuo personaggio?
Certamente sì. L’aver potuto consolidare nel corso degli anni, la mia professionalità mi ha dato modo di poter leggere molte sceneggiature imparando a estrapolare i passaggi che mi sembrano più indicativi per la costruzione del personaggio. In questo caso dalla sceneggiatura emergeva da subito quello che dovevano raccontare i personaggi. Poi, quando c’è stato il lavoro fisico necessario ad acquisire la corporatura di Bruno il testo è diventata una traccia che mi ha fatto sentire molto libero di creare potendo contare su un nucleo fisso di informazioni. La sceneggiatura era così illuminante che spesso mi sono ritrovato anche a improvvisare certi comportamenti. Sentivo che oramai il personaggio andava da sé e che allo stesso tempo riuscivo a non tradire ciò che aveva scritto Filippo Gravino nel suo impeccabile testo.
In fase di lettura è successo che una parola o una frase ti abbiano aiutato a riassumere l’essenza del personaggio o guidato alla scoperta di una parte di esso?
Quello che mi ha colpito di più è il modo in cui Bruno guarda sua figlia. Adesso non ricordo nello specifico le parole però in quella piccola descrizione secondo me usciva fuori tutta la personalità del mio personaggio. Si percepivano le sue fragilità, ma allo stesso tempo la voglia di farcela per qualcun altro. Era una piccola espressione che raccontava un mondo interiore che poi si è rivelato la chiave per il lavoro sul personaggio e cioè quella di immaginare un uomo molto fragile fisicamente, ma con un’enorme fame di vita; determinato a cogliere l’ultima opportunità che la vita gli offre prima di crollare nel baratro. Il testo qui è stato fondamentale.
Foto di Andrea Pirrello
Peraltro, rispetto a certi film mainstream, Come pecore in mezzo ai lupi procede in senso inverso. Inizia con una rapina, e dunque con un atto molto esplicito e di per sé concreto per poi scavare dentro il personaggio, mostrandone le debolezze e non l’onnipotenza come invece ci si aspetterebbe.
Sì, è questo è l’aspetto meraviglioso. Se metti a paragone due frame, quello iniziale della rapina, con Bruno camuffato, gli occhi spiritati e la pistola in pugno, con la sequenza finale in cui lo ritroviamo ancora una volta armato – peraltro sono gli unici momenti in cui lui è armato – il confronto ti permette di leggere l’inizio della storia in modo diverso, apprezzando la parabola esistenziale che di lì in poi verrà raccontata. La stessa di cui mi hai chiesto nella domanda.
Andrea Arcangeli e il personaggio
Partendo dalla rapina Come pecore in mezzo ai lupi racconta di un mondo prettamente materiale anche nella scelta delle scenografie. In realtà è proprio al tuo personaggio, attraverso il suo sacrificio, che viene affidato il compito di invertire la tendenza introducendo nel film un universo sentimentale opposto alla rapacità del contesto in cui sono immersi i personaggi. È così che scopriamo Bruno nelle vesti di padre premuroso e presenza solidale per la sorella e la ex moglie. Peraltro la tua è una figura cristologia e in quanto tale portatrice di un mondo spirituale.
Di Bruno mi piaceva il suo essere senza filtri. Quando succede per forza di cose si arriva a quello che tu chiami spirito. In qualche modo Bruno può essere visto come puro spirito, come pura sincerità, epurato com’è di ogni sovrastruttura anche dal punto di vista fisico. Lo volevamo di forte impatto e per certi versi anche crudo nella sua nudità.
Foto di Andrea Pirrello
Con Isabella Ragonese avete fatto un lavoro uguale e opposto. Entrambi avete lavorato sul corpo facendone un mezzo espressivo, mentre dal punto di vista della personalità si trattava di delineare attitudini opposte, con Bruno aperto al mondo e Stefania chiusa in se stessa. Immagino quanto sia stato importante tra voi due instaurare il meccanismo di azione-reazione che esiste tra i vostri personaggi.
Bruno e Stefania sono personaggi speculari, due facce della stessa medaglia che poi si sono perse nel tempo fino a quando il destino li ha fatti ritrovare. Ognuno ha qualcosa che manca all’altro, e questo apre un grande interrogativo su ciò che c’è stato prima tra loro due, quando entrambi erano piccoli. Come erano, come si compensavano, quanto avevano bisogno uno dell’altro. La presa di coscienza di questa necessità forse arriva troppo tardi. Da qui la necessità di recuperare il loro rapporto prima che il destino faccia il suo corso.
Il racconto attraverso il non detto
Come pecore in mezzo ai lupi lascia spesso alle immagini il compito di raccontare certi non detti. Il film li lascia trapelare dai vostri sguardi, da come vi muovete, dalle fattezze dei vostri corpi, raccontando non il presente, ma soprattutto il passato dei personaggi. Questa parte mancante come te la sei immaginata?
Ci siamo chiesti cosa potesse essere successo senza darci molte risposte perché volevamo cercarle insieme ai personaggi. Sapevamo che dal loro passato emergeva il bisogno di essere amati, di qualcuno che volesse loro bene. Lavorando su questo molti sottotesti ce li siamo immaginati. Alcune volte ero io ad avere la versione completa più plausibile, altre Isabella. Rinunciando a ricostruire passo passo cosa era successo abbiamo lasciato che quell’alone di mistero lavorasse dentro di noi. Sapevamo quali erano le necessità e i bisogni che spingevano Bruno e Stefania l’uno verso l’altra e ci piaceva lavorare all’interno di questo immaginario.
Foto di Andrea Pirrello
Andrea Arcangeli e il lavoro sul corpo
Sul corpo di Bruno e Stefania leggiamo i segni di quel passato. In questo senso il lavoro sul corpo inteso come riflesso del vissuto dei personaggi è stato fondamentale. La trasformazione a cui ti sei sottoposto per perdere peso penso sia stata importante non solo per l’immagine del personaggio ma proprio per sentirlo su di te, considerando che la fisicità di Bruno era, almeno in partenza, diversa dalla tua.
Sì, è stato bello lavorare al contrario di come di solito si fa, associando le circostanze della storia alle esperienze personali. Qui è partito tutto dal corpo: rispetto al mio arrivo sul set ho recitato le varie scene in un modo in cui non avrei mai pensato e cioè restando all’interno del personaggio e soprattuto isolandomi dalla società. Questo perché quando devi seguire una dieta così ferrea – e lo sto leggendo adesso con il lavoro fatto da Cillian Murphy per Oppenheimer – sei costretto a stare da solo. In questo isolamento mi sono accorto che anche inconsciamente Bruno mi era entrato dentro per cui una volta sul set quando usciva fuori qualcosa di imprevisto sapevo che quello era comunque Bruno. E poi questa fame che ho provato per così tanto tempo mi piace associarla ideologicamente alla fame di vita del personaggio, un uomo che con poche risorse riesce a tirare fuori il massimo da quello che ha.
Lyda mi ha parlato (qui per la conversation), a proposito di Bruno, come di un corpo tossico consumato dalla vita. La trasformazione che ti ha permesso di diventarlo mi ha ricordato tantissimo il personaggio di Luca Marinelli in Non essere cattivo. Hai avuto anche tu questa sensazione?
Se è successo è stato a livello inconscio perché non l’avevo preso come modello. Però di certo parliamo di un film che ho amato e di Luca che, oltre a essere un amico, è un attore che stimo tantissimo. Per cui sì, qualcosa devo aver rubato, considerando che ognuno di noi lo fa ogni volta che lavora su un personaggio. Luca è un maestro da cui apprendo continuamente. Parlando di reference una di queste è stata il lavoro fatto da Christian Bale ne L’uomo senza sonno. Nel corso degli anni e con personaggi come Roberto Baggio ho capito che certi ruoli richiedono un totale assorbimento, altrimenti c’è il rischio di essere superficiali.
Ti ho detto di Marinelli perché mi offre la possibilità di trovare un termine di paragone conosciuto per far capire la qualità della tua interpretazione.
Grazie, è una considerazione che mi lusinga.
Foto di Andrea Pirrello
Prima Romulus
Sei arrivato al provino del film dal set di Romulus, quindi sempre restando al fisico, con una corporatura diametralmente opposta a quella di Bruno. Da Re e Reietto è stato un bel salto.
Bella questa: “da re a reietto” potrebbe essere il titolo di questa intervista.
Devo dirti che ho un forte richiamo per personaggi così distanti tra di loro: non per volere dimostrare qualcosa, ma per il bisogno di sentire fino a che punto mi posso allontanare da quello che sono io. Mio padre, dopo aver visto il film, mi ha detto di non aver riconosciuto Andrea in nessuna delle scene. Questo mi fa venire ancora più voglia di esplorare. Soprattutto perché venivano uno dopo l’altro, i personaggi di Romulus e di Come pecore in mezzo ai lupi mi hanno dato la possibilità di scoprire fino a che punto potevo allontanarmi da me.
Ho pensato anche io quello che ha detto tuo padre. Per un interprete con la tua fisiognomica è ancora più difficile far dimenticare l’attore a favore del personaggio. Tu ci sei riuscito in maniera eccellente perché sei davvero irriconoscibile e lontano dall’immaginario che abbiamo di te. Vedendoti hai avuto anche tu la stessa sensazione?
Io non mi fido mai della sensazione che ho quando mi guardo. Preferisco affidarmi a quella che ho quando giro. Ci sono alcuni progetti che mi danno la sensazione di allontanamento e anche di grande libertà. Mi sento di poter cambiare, di diventare davvero un’altra persona. Avere la sensazione di poter togliere il freno a mano al personaggio perché ti puoi fidare di lui è ciò che ricerco nei ruoli che interpreto. Rivedersi a film terminato presuppone farlo con una serie di filtri e con l’intervento del montaggio, ovverosia con una mediazione che invece non esiste mentre stai recitando. È a quel momento che mi rifaccio per verificare fin dove mi sono spinto.
Photo credit Andrea Pirrello
Di nuovo il corpo protagonista
Ritornando al lavoro sul fisico ti volevo chiedere di entrare un po’ nel dettaglio. Di solito la tendenza è quella di potenziare il corpo mostrandolo in tutta la sua potenza muscolare mentre qui invece succede il contrario.
Nella pratica ho chiesto ad Alessandro Borghi il contatto della nutrizionista che l’aveva aiutato su un set. Così ci siamo messi in contatto con Giulia Mecozzi e con lei siamo andati a vedere come rispondeva il corpo al progressivo taglio degli alimenti. Sono dovuto andare a correre molto, poi con il tempo è subentrato l’isolamento anche mentale a cui mi ha portato la mia condizione. Lì ho avuto paura che tutto questo avrebbe reso difficile riprendere la mia normale vita perché davvero mi ero disabituato a stare con le persone. Mi sono chiesto spesso cosa sarebbe successo dopo. Se mi fossi annullato per sempre o sarei tornato a essere quello di prima. Devo dire che il graduale ritorno alla normalità è stato anche bello. Al di là di questo è stato interessante spingermi oltre un limite e rendermi conto di come diamo per scontate alcune cose, tipo il fatto di avere cibo da mangiare. Mai nella vita mi ero ritrovato a sentire fame, avendo nel piatto solamente due spinaci e ottanta grammi di pesce.
Ne Il Divin Codino di Netflix avevi a che fare con un personaggio reale e dunque con un immaginario già esistente, quello del grande campione di calcio. Per Bruno sei dovuto partire da zero.
Per Roberto Baggio sentivo di avere molti paletti da rispettare. Come dici tu mi sono avvicinato a un immaginario già esistente, quindi si è trattato di andare a riprendere un’espressione di un certo tipo, un certo modo di parlare e di muoversi. Tutti paletti di cui all’inizio ho tenuto conto. Alla fine però le differenze sono meno di quelle che uno può immaginare. Il gioco sta nel creare una bolla di caratteristiche del personaggio che tu puoi padroneggiare. Riuscendoci mi sono sentito libero di muovermi, consapevole che in qualsiasi direzione andavo avrei rispettato comunque il personaggio. Con Baggio sapevo che c’erano delle cose da rispettare, ma poi era fondamentale dargli una personalità e un’anima e quelle non potevano nascere dalla mera imitazione di un modello preesistente. Quello che la gente voleva vedere nel film ci doveva essere. Allo stesso tempo il pubblico si doveva anche emozionare, ed è qui che l’interprete è chiamato a fare la differenza.
Una delle sequenze più complesse del film è quella in cui Bruno e Stefania si incontrano sotto mentite spoglie. Per renderla palpitante dovevate immedesimarvi in una doppia realtà: quella di trovarvi di fronte a un rendez-vous inaspettato e soprattutto di suggerire la famigliarità che esiste tra i due protagonisti. A rendere il tutto più difficile il fatto di doverlo fare senza parole, ma con il solo sguardo.
Mi ricordo che era stato molto complesso perché tutto avviene senza che noi possiamo parlare e nemmeno guardarci per il rischio di svelare le nostre identità. L’ per me è stata fondamentale l’indicazione datami anni fa da un regista e cioè di non mostrare il sottotesto, ma di limitarmi a pensarlo perché poi gli occhi lo raccontano per conto loro. Non avendo parole in quel momento ho dato sfogo ai miei pensieri.
Il cinema di Andrea Arcangeli
Parliamo del cinema che ti piace.
Un cinema che mi piace molto è quello di Paweł Pawlikowski, autore di un immaginario in cui mi perdo. Parlando di attrici, da piccolo fui colpito tantissimo da quello che fece Ingrid Bergman in Notorious. Aveva un che di inspiegabile e affascinante che colpì la mia immaginazione. Lo stesso mistero che mi lasciarono certi film di Sean Penn che poi forse ho ricercato inconsciamente di riprodurre come attore.