Protagonista del corto vincitore a Cannes 64, Il barbiere complottista, Lucio Patanè è uno di quegli artisti con cui è davvero facile e piacevole parlare. Disponibile, sincero e appassionato, si è concesso alle domande di Taxidrivers, raccontando il suo approccio alla recitazione e svelando chi lo ha maggiormente influenzato.
Nel giorno del compleanno di Mattia Torre – nato il 10 giugno a Roma – Lucio Patanè ricorda con affetto uno dei creatori del mitico Boris, sostenendo e sottolineando l’importanza del lavoro di squadra.
Intervista a Lucio Patanè | La vittoria a Cannes
Come è andata a Cannes? Vi aspettavate l’accoglienza ricevuta?
La Cinéfondation è una sezione minore, riservata alle scuole di cinema, ma Cannes è sempre il festival più importante del mondo. Per cui ero già contento che il lavoro partecipasse al festival. Non mi aspettavo un simile riconoscimento o la vittoria, ma quando ho visto gli altri corti e l’accoglienza riservata al nostro Il barbiere complottista, ho pensato che forse un premio saremmo riusciti a vincerlo. È stata una bellissima sorpresa ed ero molto emozionato.
Ed ora come vivi questo momento?
È una soddisfazione enorme, poiché è frutto di un grande lavoro. Insieme a Valerio Ferrara abbiamo lavorato molto alla sceneggiatura, alla messa in scena. Tutti i ragazzi hanno partecipato alla lavorazione, sia quelli della scuola di cinema che gli altri. Come diciamo a Roma, “dipende tutto dal manico”, dalla bravura di Valerio. Sa bene cosa vuole raccontare e come farlo. Ha un modo molto coinvolgente di rapportarsi agli altri, molto educato, quasi d’altri tempi.
Il lavoro con Valerio Ferrara
Come è nata la collaborazione con Valerio Ferrara?
Il rapporto con Valerio viene da lontano, quando era assistente alla regia di una serie. Ci siamo tenuti in contatto nel corso degli anni. E ora mi ha permesso di fare questo viaggio nella mente del personaggio de Il barbiere complottista.

Ci sono somiglianze tra te e il tuo personaggio? E come lo hai costruito?
Ho studiato molto, mi sono preparato, ho consultato libri di psicologia che trattavano il tema della psicosi e della schizofrenia. Ho parlato e ascoltato le persone che parlavano di complotti, oltre al programma La Zanzara su Radio24. Una fonte di ispirazione enorme.
Così mi sono fatto un’idea e ho cercato di essere il più possibile reale.
Con Valerio, il costumista e il truccatore, abbiamo scelto di avere sempre una maschera definita ma riconoscibile. L’importante era che si puntasse sulla verità, per cui abbiamo curato tutti i dettagli. Poi è stato utile il caldo, dal momento che abbiamo girato a luglio, ci ha aiutato sulla stanchezza e a rendere il personaggio ancora più sospeso.
Quale è stata la sfida più grande da affrontare?
Ho cercato di usare tutto quello che avevo a disposizione, ma non è stato difficile. È stato un lavoro di stratificazione. Dalla sceneggiatura, riscritta insieme tre volte, abbiamo lavorato tantissimo durante le riprese. Ci sono stati tanti ciak per ogni scena. Ha aiutato la collaborazione e il mettersi a disposizione di tutti, da Maria Pia Timo a Simone Rinaldi, da Bruno Pavoncello a Beatrice Modica. Abbiamo cercato di costruire un rapporto, una relazione, che viene fuori nella messa in scena. La cosa bella del cinema, della serialità televisiva, del teatro, è che, senza rapporti, non si va da nessuna parte.
È un lavoro di squadra, verso un obiettivo comune.
Il mestiere dell’attore e le grandi lezioni di vita
Se dovessi scegliere, quale dimensione senti più tua: il cinema, la televisione o il teatro? E c’è un genere che prediligi?
Non ho una predilezione per un genere, mi piace spaziare tra i generi e mischiarli. Il realismo, la commedia, il tragicomico, il surreale. Cerco di trovare sempre il modo per dare vita al personaggio. La cosa importante è che devo divertirmi, sennò non rendo un buon servizio nè al regista, nè alla storia, nè al personaggio.
Noi attori siamo dei mezzi, attraverso cui il pubblico può immaginare, divertirsi e andare in altri mondi.
Dobbiamo intrattenere e credo che l’attore debba mettersi al servizio dei compagni di scena, del regista, della storia. L’osservazione e l’ascolto della vita reale sono importantissimi, per poi usare la mia immaginazione.

Photo Credits: Lorenzo Pesce
Quali insegnamenti e lezioni hai ricevuto nel corso degli anni? E quali porti sempre con te?
Ho avuto la fortuna, oltre che la possibilità, di lavorare con persone affette da patologie fisiche e psichiche, e con Dario D’Ambrosi al teatro patologico. In famiglia, la sorella di mia nonna si è ammalata di meningite ai tempi della guerra, per cui mi sento vicino a quel mondo. So cosa significa avere a che fare con quel tipo di condizione umana.
Gli spettacoli con D’Ambrosi sono stati una scuola di vita meravigliosa.
Noi normodotati non ci rendiamo conto di quanto siamo fortunati. Inoltre mi ha segnato dal punto di vista artistico. Ho imparato a essere più naturale possibile, a rispondere alle battute, non leggendole, ma vivendole, lasciando più spazio all’immediatezza, alla spontaneità.
Ringrazio poi i maestri con cui ho avuto a che fare: Mario Pizzuti, ormai un grande amico, F. Murray Abraham, che ho incontrato di recente, Trine Dyrholm, con la quale ho lavorato in Nico, 1988, Jeremy Irons, un grande personaggio da cui ho imparato la semplicità. E ancora Ugo Tognazzi, Renzo Montagnani, Philippe Noiret, Mario Monicelli che mi ha tenuto a battesimo. Da loro ho imparato, guardandoli, un certo modo di stare sul set, di essere rispettosi, una signorilità. Mio padre mi diede un consiglio, prima di partire per Firenze, per girare Amici Miei Atto II
“Quando fai un film, cerca di divertirti come se stessi giocando una partita di calcio”.
Potrei continuare all’infinito… Ci sono anche Ninni Bruschetta e Maurizio Marchetti, molti dei suoi consigli tecnici li porto sempre con me. Ho avuto la fortuna di lavorare anche con Giacomo Ciarrapico, da cui si impara sempre qualcosa, gli piace la messa in scena e conosce benissimo il significato di essere attore, perché lo è stato. Penso che sia un mezzo genio della scena!
Lucio Patanè, tra Italia e USA, in attesa di Boris 4
Che differenze ci sono tra i set italiani e quelli internazionali? Come cambia il modo di lavorare?
Ho avuto la fortuna di studiare con Beatrice Bracco e con Juan Carlos Corazza. Ho appreso la semplicità del rapportarmi con gli altri, che è una cosa tipicamente sudamericana, e un’autorevolezza tipica degli argentini. Due mesi fa ho finito di girare a Taormina The white lotus 2. Ecco, dal punto di vista produttivo, l’approccio americano è più industriale: si tratta di una macchina oleata, efficientissima. Ma anche più sereno, formale e sostanziale. Ci sono un’attenzione e un rispetto paritario tra tutti gli attori. Purtroppo spesso da noi c’è un atteggiamento più gerarchico. Come dicevo, dipende sempre dal manico e dal clima, che fanno il regista e l’organizzatore.
Un sogno nel cassetto che vorresti realizzare…
Mi piacerebbe variare, avere la possibilità di continuare a variare le interpretazioni, non fossilizzarmi in un ruolo, ma continuare a divertirmi e divertire. Usare la voce, il corpo, creare un aspetto da ricollegare all’umanità che deve venire fuori. Insomma, questo è quello che mi auguro, non proprio un sogno. Affrontare sfide e mettermi alla prova con storie più diverse.
Per esempio, ho amato particolarmente il personaggio di Bang Bang Baby, che mi ha dato la possibilità di proporre un dialetto del sud – un Gaetano, non proprio napoletano – ed essere vero. Sancendo anche la differenza tra il poliziotto anziano, che sono io, e quello giovane, del nord.
Mi piace molto lavorare per contrasti e penso arricchisca i personaggi.
Mi piacerebbe avere la possibilità di confrontarmi con un bel ruolo e immergermi nella lingua, nel dialetto con qualcuno del luogo.
C’è un ruolo a cui sei particolarmente legato?
Tornare, dopo tredici anni, a fare il personaggio (visto nella terza puntata della prima stagione) di Boris, messo in un contesto diverso, per me è una grandissima soddisfazione. Mi è piaciuto per tanti motivi, ho usato il massimo dell’autoironia. Ritrovarmi sul set con Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo e tutti gli altri, Calabresi, Tiberi, Bruschetta, è stato bellissimo. Considerando il successo delle tre stagioni più il film, ma soprattutto l’amore, la passione, l’emozione che abbiamo messo per ricordare Mattia Torre, è stato un set molto divertente e coinvolgente. C’è stata una partecipazione collettiva bellissima, che ha permesso a Luca e Giacomo di continuare a scrivere e girare senza Mattia.
Sembrava di stare a casa in pantofole.
Sono molto affezionato a questo personaggio e a tutto il contorno di Boris. È un ruolo che mi ha portato bene e spero che mi porti anche meglio!
*Salve sono Sabrina, se volete leggere altri miei articoli cliccate qui.