Oltre all’uomo che fissa le capre di George Clooney, in questi anni il cinema d’autore ci ha regalato un uomo che fissa le mucche. Anzi, che si fissa per le mucche. Si tratta del protagonista di Petit paysan – Un eroe singolaredi Hubert Charuel, dal 31 marzo su MUBI. Titolo nemmeno troppo anonimo, considerando che nel 2018, un anno dopo l’esordio alla Semaine della Critique a Cannes, incassò tre premi César: migliore opera prima, miglior attore (Swann Arlaud), migliore attrice non protagonista (Sara Giraudeau). Ma certo, non un film virale – pur basandosi su un’epidemia: la febbre emorragica che si diffonde tra le vacche della fattoria della famiglia di Pierre. È quest’ultimo – un po’ provinciale, un po’ complottista, un po’ resiliente – l’eroe singolare del titolo italiano. Funziona meglio, comunque, il titolo internazionale: Bloody Milk. Che fa capire – questa sì, singolare – la strana e intrigante identità del film: un rural-thriller teso, spruzzato di humour nero alla Coen e di noir di campagna.
Il trailer
La trama
Pierre è un allevatore di mucche da latte di 30 anni. La sua vita ruota attorno alla fattoria di famiglia che ha rilevato, alle sue mucche, alla sorella veterinaria e ai suoi genitori. Quando in Francia scoppiano i primi casi di una malattia epidemica, Pierre scopre che uno dei suoi animali è infetto. (Sinossi ufficiale di MUBI)
Paranoie vaccine
Quest’uomo ha le mucche in testa. La prima scena di Petit paysan – Un eroe singolare vede Pierre (Swann Arlaud, Les anarchistes) in una sequenza onirica. L’uomo è circondato da mucche, con un vago effetto di surrealtà psichedelica nemmeno fossero uscite dalla copertina di Atom Heart Mother dei Pink Floyd. Sono ovunque; in cucina, in camera da letto. Ma è solo un sogno.
Petit paysan – Un eroe singolare: la scena iniziale del sogno tra le mucche
Anafora cinematografica della prima parte del film è il reboot del sonnecchiare mattutino, con il trillare della sveglia che richiama l’allevatore alla sua maniacale routine. Il montaggio sonoro di questa fase iniziale del racconto è un alienante misto di macchinari da mungitura, latte versato, fieno croccante. Per non parlare del gergo veterinario. È uno stallo nelle stalle, che vale assai più del mero ritratto d’ambiente. Più della profilatura del contesto, emerge infatti uno studio di carattere. Pierre, potenziale Norman Bates, vive ancora in dipendenza dei genitori, tra amore e odio, e assilla la sorella veterinaria con l’ansia ipocondriaca che gli si ammali una mucca.
Petit paysan – Un eroe singolare: Pierre in un animato colloquio con la sorella veterinaria
Quando ha finito di sbrigare i doveri di buon vaccaro con nervosa diligenza, guarda compulsivamente il video di un allevatore ribelle a cui è stata soppressa la mandria per un caso di febbre emorragica. Allorché, effettivamente, uno degli animali si contagia, a tratti sembra davvero che l’atmosfera paranoide evolva in direzione di uno Psyco.
Un petit psyco
Uno dei sintomi della febbre emorragica è il dorso insanguinato o la mungitura con sangue nel latte. S’intende a dovere il titolo Bloody Milk. La svolta della malattia è quella per cui l’ossessione diventa paranoia. Qui, nel timore di Pierre che la mandria sia soppressa, il film s’incupisce in umori morbosi. Il suo è un conflitto etico – denunciare o nascondere – ma anche la disperata autodifesa dell’uomo che alla campagna deve tutto.
Io non so fare altro. Non ho mai fatto altro.
La caccia alla mucca infetta volge allora Petit paysan in una sorta di thriller rurale. Il sangue fa da tópos di genere. Inizialmente, quello innocente del parto di un vitello, che la regia di Caruel esibisce allo spettatore nella propria crudezza. Dopo, è quello dei sintomi della malattia, ma anche di fucili e accette che minacciano l’uccisione delle vacche contagiate. Una scena di mungitura, poi, in cui Pierre teme che qualche goccia di sangue possa rivelare la diffusione del contagio, è giocata su primi piani di occhi dell’animale e del padrone, nel tamburellio elettronico dello score musicale: un’angoscia da macello, tipo assassinio hitchcockiano nella doccia. E le scene notturne, spesso gelide, in campo medio, alimentano un clima cospiratorio e un’atmosfera nera che ricorda sul piano puramente visivo Lo sciacallo (2014) di Dan Gilroy.
Tanto thriller per nulla
Così come si costruisce il clima thriller\noir, lo si smantella con ironia brillante. Petit paysan – Un eroe singolare non è, va precisato, un crescendo di tensione. Alcuni interludi lo smorzano scientemente. La partita a bowling di Pierre con i compagni – giocata col nervosismo di chi nasconde in stalla la carcassa della mucca, come un parente ammazzato in cantina – regala il gustoso dettaglio del soprannome del giocatore: “il principe delle vacche”, rigorosamente scelto dai compagni. Parentesi canzonatoria da buddy movie mancato. Ancora: l’appuntamento con la fornaia del paese è un mezzo disastro, come in certe commedie romantiche americane che precipitano. Infine, un vitello preservato dal contagio siede sul divano e guarda al telegiornale le notizie sulla diffusione della febbre emorragica tra gli animali.
Petit paysan – Un eroe singolare: il vitello sul divano
La stessa comparsata del complottista youtuber, l’allevatore costretto a rinunciare alla sua mandria per l’intervento sanitario e in attesa di un tardivo indennizzo, presenta caratteri vagamente parodistici.
Perché, allora, tanto thriller per nulla? Di fatto, serviva un mondo a misura di Pierre, cucitogli sulla singolarità della pelle. Un mondo di inquietudini, di logoramento, di frustrazione. In cui, cioè, la paura è autoalimentata. Ma non siamo in un thriller, alla fine: il ritratto psicologico prende il sopravvento e l’ultima parte è un anti-climax. Il risultato è che la tensione ci tiene incollati allo schermo fin quando deve servire (a mungere la nostra attenzione). Perché, alla fine, per contemplare da fuori la desolata frustrazione di Pierre, anima drammatica del film, di questo c’era bisogno: entrare nella sua testa e allevare, con lui, il tormento.
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