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‘PPP 100’, primissimo piano Pier Paolo Pasolini attore

Panoramica sulla carriera di attore di Pier Paolo Pasolini

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‘PPP 100’, primissimo piano Pier Paolo Pasolini attore

La rilevante opera di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) è multiforme e stratificata, difficilmente sintetizzabile in poche pagine. Un’intensa carriera che si è svolta dal 1942 (data di pubblicazione della piccola raccolta Poesia a Casarsa) al 1975 (anno della morte violenta).

In questo arco di tempo l’autore si è cimentato con quasi tutti i mezzi comunicativi, per sperimentare nuove tecniche e trovare un linguaggio capace di descrivere immediatamente la realtà.

Facendo il cinema io vivevo finalmente secondo la mia filosofia. Ecco tutto.

(Pier Paolo Pasolini, La fine dell’avanguardia, in “Nuovi argomenti”, luglio-dicembre 1966)

È proprio nel cinema, medium che lo rese realmente conosciuto nel mondo della cultura e tra la massa, che trova questa lingua a lungo ricercata. Una febbrile carriera registica, svoltasi tra il 1961 (Accattone) e l’anno della sua morte (Salò o le 120 giornate di Sodoma), in cui l’autore sforna ben 22 opere, ognuna con un differente approccio al mezzo tecnico.

Per un miglior orientamento all’opera cinematografica di Pasolini, comunque, si consiglia di leggere l’appassionante ed esaustiva panoramica curata da Luca Bove: “Pier Paolo Pasolini, una filmografia eretica”.

Pasolini regista, soggettista, sceneggiatore e finanche operatore di macchina per i suoi film, ma anche attore. Un ruolo, svolto occasionalmente, che conferma il desiderio di confrontarsi con le più disparate forme espressive, oltre a evidenziare il suo narcisismo. Pasolini non aveva doti attoriali (infatti veniva doppiato); però i personaggi che ha incarnato sono inequivocabili richiami alla sua figura di intellettuale.

Ma queste sporadiche attuazioni, tendenti alla parodia, ossia mettendosi alla berlina, evidenziano anche come per lui la recitazione fosse un gioco (To Play, come compendia mirabilmente il verbo inglese). È lo stesso Pasolini a confidare:

Rifarei l’attore? Forse sì, naturalmente se il regista fosse un mio amico, e così gli altri attori. Fare l’attore è una vacanza: questa è la ragione. Si arriva alla mattina presto sul posto, e come si arriva ci si sente immediatamente privi di responsabilità: passano le mezz’ore, le ore, le mattinate, i pomeriggi: e tu sei lì, ad aspettare che venga il momento di dire le tue battute […]

(Pier Paolo Pasolini, Nei panni di un ragazzo di vita, ne Il gobbo, Alberto Bevilacqua (a cura di), Sciascia Editore, novembre 1960)

I PPP (Primissimi Piani Pasoliniani) scelti per corredare quest’articolo commemorativo, vogliono essere la testimonianza della vivacità e dell’eclettismo di Pasolini; e attestare che nella memoria non resteranno soltanto i suoi scritti, ma anche le sue espressioni facciali.

Il gobbo (1960)

La pellicola di Carlo Lizzani racconta, concedendosi diverse licenze storiche, le gesta di Giuseppe Albano (1927-1945), giovane calabrese affetto da cifosi, che fu uno dei più noti e attivi esponenti della Resistenza a Roma, nel quartiere popolare del Quarticciolo.

Nel film il personaggio viene chiamato Alvaro Cosenza (il cognome rimanda alle origini calabresi) ed è interpretato, per motivi di co-produzione, dal francese Gérard Blain. Il gobbo, una delle opere di punta del filone resistenziale, sorto prepotentemente dopo i successi critici e commerciali de Il generale Della Rovere (1959) di Roberto Rossellini e La grande guerra (1959) di Mario Monicelli, miscela echi neorealisti (i veri luoghi in cui si svolsero le vicende e l’inserimento di alcuni attori di strada) con il noir americano (gli stilemi tipici del gangster movie).

Pier Paolo Pasolini fu chiamato da Dino De Laurentiis per collaborare alla stesura della sceneggiatura, in modo tale da dar maggior veridicità al sostrato romano. Però la maggior parte del suo lavoro fu cestinato, poiché ritenuto troppo poco commerciale e soprattutto passabile di tagli censori (in particolare per la crudezza dei dialoghi).

Per Pasolini questo ennesimo rifiuto fu la definitiva spinta per passare dietro la macchina da presa, così da poter proteggere le sue sceneggiature dalle manomissioni di registi e/o produttori:

[…] una specie di rabbioso capriccio, nei confronti di registi e produttori (La notte brava, Morte di un amico), il desiderio di veder realizzati fatti, persone, scene, proprio come io, scrivendo, li vedo.

(Pier Paolo Pasolini, La vigilia. Il 4 ottobre, in Accattone, Pier Paolo Pasolini, FM edizioni, 14 agosto 1961,)

Ne Il gobbo Pasolini interpreta Leandro detto “Il monco”, compagno di lotte di Alvaro Cosenza prima, e dopo, quando “il gobbo” diviene un bandito, suo rivale. La scelta di far interpretare questo personaggio al non attore Pasolini può essere interpretata come un injoke, poiché Leandro è un ragazzo di vita, come quelli che l’autore aveva minuziosamente descritto nei suoi due romanzi (e nelle sceneggiature d’ambientazione borgatara).

Ma l’apparizione di Pasolini in questo film divenne soprattutto nota per come una foto di scena (Pasolini imbraccia un mitra) fu usata dalla stampa di destra per screditare il poeta dopo i fatti del Circeo (18 novembre 1961). Tale vicenda vedeva imputato Pasolini perché il barista di una stazione di servizio, sita al Circeo, lo accusò di averlo minacciato con una pistola che aveva in canna un proiettile d’oro. Pertanto quella foto, estrapolata dal contesto (finzione cinematografica), serviva ad avvalorare che Pasolini fosse realmente capace di un simile gesto criminale.

Requiescant (1967)

Questo film di Lizzani rientra nel filone degli Spaghetti Western, ma fa parte di quelle opere che utilizzavano questo genere “commerciale” per imbastire un discorso politico sull’utilità della rivoluzione. In questo caso, a fianco del plot sulla vendetta personale di Requiescant (Lou Castel), c’è la storia della rivincita dei poveri peones messicani contro un ricco latifondista americano (Mark Damon).

Requiescant è un film imperfetto, ma rimane nella memoria per il bizzarro innesto nello scenario western delle figure “borgatare” di Pier Paolo Pasolini (Don Juan), Ninetto Davoli (il peone El Niño) e Franco Citti (il soldato Burt). Don Juan è lo spirito guida dei peones, quello che fa comprendere al popolo di sottoproletari – messicani –  perché è necessario quanto prima ribellarsi allo sfruttamento e al capitalismo (rappresentato dai soldati americani).

Si divertiva moltissimo a recitare, cercava la precisione della battuta, della truccatura, sembrava che avesse sempre fatto l’attore.

(Nino Crisman, Western e politica?, in Franca Faldini e Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano – da La dolce vita a C’era una volta nel West, Cineteca di Bologna, aprile 2021)

È chiaro che anche questa seconda chiamata di Lizzani ha la funzione di injoke, ossia quella di dare a Don Juan la fisionomia di Pasolini, intellettuale rivoluzionario che proprio in quel periodo si batteva contro il consumismo, la distruzione delle borgate e l’avanzamento di una lingua koinè (facendo scomparire la ricchezza dei dialetti). Anche in questo caso, Pasolini è doppiato.

Edipo Re (1967)

Presentato alla 27º Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, la pellicola è una personalissima trasposizione dell’omonima tragedia di Sofocle:

[…] in Edipo, io racconto la storia del mio complesso di Edipo. Il bambino del prologo sono io, suo padre è mio padre, ufficiale di fanteria, e la madre, una maestra, è mia madre. Racconto la mia vita mitizzata, naturalmente resa epica dalla leggenda di Edipo.

(Pier Paolo Pasolini, Entretiens avec Pier Paolo Pasolini, in Jean Duflot, Èditions Pierre Belfond, 18 giugno 1970)

Nel ruolo del protagonista c’è Franco Citti, scelto perché rappresenta bene l’animalità insita nel personaggio (gli urli di rabbia sottolineano questa bestialità), mentre Ninetto Davoli interpreta Angelo, il ragazzo che accompagna Edipo ormai cieco per le strade dell’Italia contemporanea. Come nella vita reale, Davoli è il sollievo e il sostegno di Pasolini in un Italia che si avvia al degrado urbano e culturale.

Pier Paolo Pasolini, non accreditato, interpreta il piccolo ruolo del Gran Sacerdote di Tebe, che con fare sicuro, accompagnato dai suoi seguaci (tutti con il volto incorniciato da una corona di conchiglie), si presenta davanti al Re Edipo per esternare il proprio monito.

Pasolini, nuovamente doppiato, ha dovuto sostenere questo ruolo poiché l’attore prescelto aveva rinunciato, e la sua entrata in scena cambia il significato della sequenza. Tenendo conto che Edipo Re è un film autobiografico, è come se Pasolini (nelle vesti di Gran Sacerdote, figura preistorica e irrazionale della figura dell’intellettuale) interrogasse l’alter ego Edipo, chiedendogli soluzioni e certezze per il popolo.

Il Decameron (1971)

L’idea di trasporre il testo di Giovanni Boccaccio avvenne casualmente, mentre Pasolini stava girando Medea (1969). Un adattamento cinematografico laborioso, con un continuo sfrondamento delle novelle da trasporre (che giunse fino al montaggio, con la soppressione dell’episodio, girato a Sana’a in Yemen, di Alibech).

Il Decameron fu il primo tassello della Trilogia della vita, e fu il film di maggior successo commerciale per l’autore, dando rapidamente origine al Decamerotico. Le sue intenzioni erano altre: un film di stampo popolare, pieno di vita (il sesso come gioia), ma in polemica con l’Italia degli anni Sessanta e Settanta, ormai socialmente decadente.

Non a caso la scelta di spostare a Napoli le novelle (tranne l’episodio in cui Ser Ciappelletto va al nord) marca questa polemica:

Ho scelto Napoli contro tutta la stronza Italia neocapitalistica e televisiva: niente babele linguistica, dunque, ma puro parlare napoletano.

(Pier Paolo Pasolini, Io e Boccaccio, Dario Bellezza, in “L’Espresso colore”, 22 novembre 1970,)

È in questo film che Pasolini interpreta il suo ruolo più noto, quello di un allievo di Giotto che scende giù a Napoli per affrescare la parete di una chiesa. L’idea di vestire i panni del personaggio fu nuovamente casuale. Inizialmente il personaggio era realmente Giotto, e doveva essere interpretato dal poeta Sandro Penna, che a ridosso delle riprese per paura cambiò idea; quindi fu contattato Paolo Volponi, che dapprima accettò e poi subito dopo rifiutò.

Fu il collega e amico Sergio Citti che gli diede l’idea di coprire quel ruolo rimasto scoperto. L’entrata in scena di Pasolini cambia completamente il senso della seconda parte de Il Decameron. Il personaggio è quello di un allievo; quindi Pasolini mette in evidenza come lui si senta un discepolo del pittore toscano.

Inoltre, il parallelismo tra pittore e regista è sottolineato nella scena in cui l’allievo osserva il paesaggio e i personaggi napoletani utilizzando le dita per mimare il taglio dell’inquadratura e il tipo di obiettivo adatto. Tecnica non usata ai tempi di Giotto. Pasolini, anche in questo caso è doppiato.

I racconti di Canterbury (1972)

Secondo tassello della Trilogia della vita, il film, tratto dall’omonimo romanzo di Geoffrey Chaucer, vinse l’Orso d’Oro al Festival di Berlino. Come con il precedente film, Pasolini attua un personale adattamento del testo d’origine:

Voglio divertirmi e divertire il pubblico. Voglio far rivivere un mondo popolare che si sta perdendo completamente, e voglio ridare agli spettatori, attraverso le mie colorite ricostruzioni storiche, il gusto dell’immagine. […] “I Racconti di Canterbury”, pur essendo un film inglese, farà riassaporare agli italiani il piacere delle soste nelle locande della realtà di ogni uomo nella sua esistenza quotidiana.

(Pier Paolo Pasolini, Stavolta tocca al Boccaccio inglese, Giovanna Grassi, in “La Domenica del Corriere”, martedì 1º febbraio 1972)

Pertanto, anche questo secondo episodio segue la felice vena illustrativa già delineata ne Il Decameron, e, come dice lo stesso Pasolini, va interpretato come un divertissement intellettuale. A differenza della precedente pellicola, però, c’è una maggiore attenzione sull’aspetto pittorico, che cita i colori dei quadri fiamminghi.

In questo film Pasolini veste volutamente i panni di Chaucer, e lo interpreta in modo buffo, accentuando quelle espressioni facciali già presenti nel personaggio dell’allievo di Giotto.

La prossimità tra lo scrittore inglese e Pasolini è evidente, e infatti se all’inizio fa parte della combriccola dei pellegrini, successivamente sarà Chaucer a fungere da cornice ai restanti racconti (in una scena lo vediamo leggere divertito Il Decameron di Boccaccio). Questa volta Pasolini non è doppiato, ed è un’ulteriore sottolineatura sulla connessione tra personaggio e autore.

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