Il Decameron è un film del 1971 scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini, tratto dall’omonima opera di Giovanni Boccaccio. È il primo episodio della cosiddetta “Trilogia della vita“, proseguita con I racconti di Canterbury (1972) e completata da Il fiore delle Mille e una notte (1974). Ebbe diversi problemi con la censura che sequestrò e dissequestrò il film e aprì anche un processo, che alla fine vide giudicati non colpevoli gli imputati (tra cui il regista stesso).
In Germania e in gran parte dell’Europa invece il film ebbe notevole successo e vinse l’Orso d’argento al Festival del Cinema di Berlino. Dal 2000, il film è vietato ai minori di 14 anni.
Pier Paolo Pasolini ispirandosi al Decameron di Giovanni Boccaccio, trae alcune delle novelle più importanti e caratterizzanti. In un cast composto in gran parte da non professionisti, tra cui il pittore Giuseppe Zigaina nel ruolo di un pio frate confessore, non mancano i due attori-feticcio di Pasolini, Franco Citti e Ninetto Davoli, rispettivamente nei ruoli di Ser Ciappelletto e Andreuccio da Perugia. Il regista scelse di calarsi fisicamente dentro la propria opera interpretando il pittore allievo di Giotto, dopo aver ricevuto un rifiuto da parte degli amici scrittori Sandro Penna e Paolo Volponi ai quali aveva proposto quel ruolo. Il film, primo successo al botteghino per Pasolini, incassò circa quattro miliardi e mezzo di lire, tra i migliori incassi della stagione 1971-72. Il Decameron detiene ad oggi il sedicesimo posto nella classifica dei film italiani più visti di sempre con 11 167 557 spettatori.
Sinossi
Le novelle di Ser Ciappelletto, morto in odore di santità, e dell’allievo di Giotto ne legano altre sette: Andreuccio viene derubato da una donna che si finge sua sorellastra, ma si rifà spogliando di tutti i gioielli la salma di un alto prelato; Masetto, finto sordomuto, entra in un convento di suore dalle quali si lascia sedurre; Lisabetta conserva la testa dell’amato, ucciso dai propri fratelli, in un vaso di basilico; Caterina e Riccardo coronano il loro sogno d’amore con il matrimonio; dall’Aldilà Tingoccio rivela al timorato Meuccio che far l’amore non è peccato; fingendo di volerla trasformare in puledra, donno Gianni si gode la moglie di un ingenuo contadino; l’infedele Peronella induce il marito a introdursi in una giara per impedirgli di scoprire il suo amante.
«Perché realizzare un’opera quando è bello sognarla soltanto?»
(Pier Paolo Pasolini nel ruolo dell’allievo di Giotto)
Alberto Moravia (L’Espresso, 11 Luglio 1971)
È giunto forse il momento di parlare del modo con il quale Pier Paolo Pasolini affronta e risolve il problema dell’illustrazione cinematografica di quei testi di cui è convenuto dire che appartengono al patrimonio culturale dell’umanità. Al tempo de Il Vangelo secondo Matteo Pier Paolo Pasolini spiegò che per l’interpretazione aveva voluto evitare le ipotesi particolari e aggiornate e tenersi invece al senso comune. Cosa intendeva Pasolini per senso comune? Evidentemente, la fruizione del testo, attraverso i secoli, “fuori della storia”, da parte di infiniti lettori, nei luoghi e nelle situazioni più diverse. Il senso comune: cioè il senso di tutto ciò che sfugge alla moda, alla storia, al tempo. Pasolini, d’altra parte, come è noto, è un manierista, forse il maggiore della nostra letteratura dopo D’Annunzio. Così fin da Il Vangelo secondo Matteo abbiamo avuto questo curioso e raffinato connubio: la visione “inattuale” del senso comune accoppiata coi mezzi espressivi “attuali” del manierismo decadente.
Per Il Decameron, Pasolini ha proceduto in maniera non dissimile che per Il Vangelo. Ha accettato e fatta sua la visione del senso comune di tutti i tempi la quale considera il Decameron come un libro non solo privo di tabù ma anche privo del compiacimento di non averne; un libro, cioè, in cui letteratura e realtà si identificano perfettamente per una rappresentazione totale dell’uomo. Accettata questa visione in fondo scandalosa (rispetto alla morale repressivamente permissiva di oggi) Pasolini è passato a lavorare sui racconti del Boccaccio con tutte le risorse del suo estetismo critico e virtuosistico. Per prima cosa ha notato che ne Il Decameron la rappresentazione realistica della civiltà contadina è chiusa in una cornice umanistica e raffinata. Indubbiamente questa cornice ha una grande importanza; essa crea quel rapporto tra gentilezza e rusticità, tra realismo e letteratura, tra immaginazione e verità che è uno degli aspetti più affascinanti de Il Decameron. Gettando via questa cornice illustre ed elegante, Pasolini sapeva di modificare profondamente il testo boccaccesco; ma dimostrava al tempo stesso di essere un regista irresistibilmente originale ossia fatalmente infedele. Pasolini non soltanto ha gettato via la cornice umanistica ma ha anche sostituito la “favella” toscana con il dialetto napoletano. Si comprende anche facilmente perché. Una volta distrutta la finzione della villa deliziosa in cui, in tempi di pestilenza, si ritira una brigata di gentiluomini e di gentildonne per godersi la vita e raccontarsi dilettose vicende immaginarie, alla rappresentazione del mondo boccaccesco conveniva meglio il napoletano ancora oggi vivo ed aggressivo che il toscano così estenuato persino in bocca ai contadini e agli artigiani. L’operazione linguistica è perfettamente riuscita ed è uno dei caratteri più originali del film. Ne è venuto fuori un Decameron in cui gli umidi e sordidi vicoli di Napoli sostituiscono le pulite rughe di Firenze e la rozza e rigogliosa campagna campana il pettinato contado toscano. Questa sostituzione topografica a ben guardare è resa visibile soprattutto dalla sostituzione linguistica. A conferma una volta di più dell’importanza della parola nel cinema.
Altra soluzione felice è quella del problema dell’erotismo boccaccesco altrettanto proverbiale quanto, in fondo, incompreso. Pasolini ha eliminato ogni tentazione di scollacciatura e ha fuso arditamente la serenità rinascimentale con l’oggettualità fenomenologica moderna. Nel film di Pasolini c’è più nudo che nel “musical” Oh! Calcutta!; ma senza il compiacimento di infrangere tabù, semmai con l’idea di spingere la rappresentazione fin dove è necessaria e dunque lecita. Crediamo che sotto questo aspetto Il Decameron pasoliniano segnerà una data importante. Forse è la prima volta che l’atto della copula viene presentato al cinema come puro e semplice gesto dei corpi, privo di significato e di valore, anzi visto come qualche cosa di difficile, di goffo e di scomodo che richiede la cooperazione di ambedue gli amanti.
Adesso bisognerebbe parlare di ogni singola novella e vedere dove Pasolini ha espresso meglio il suo sentimento del Decameron. Ci pare che tre novelle si levino al di sopra delle altre: quella dell’Isabetta e della pianta di basilico (qui la lezione di Mizoguchi e del cinema giapponese è messa a frutto); quella cosiddetta dell’usignolo (un po’ leziosa ma è leziosa anche nel Boccaccio); quella di Masetto da Lamporecchio (la più importante per quanto riguarda il trattamento “oggettuale” dell’erotismo). A queste tre pensiamo che bisogna aggiungere i due aneddoti di Peronella e di compar Pietro nei quali è recuperata l’antica rusticità della Campania. Nella novella celebre di Andreuccio preferiamo la parte della cattedrale a quella della casa della cortigiana. Gli interpreti sono tutti bravi per merito loro e di Pasolini che ha saputo sceglierli e dirigerli. Ma essi valgono soprattutto come volti inventati e rappresentati con estraniata immediatezza da encausto pompeiano.”