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È reale? di Gianfranco Pannone

Epifanie

Pensierino di fine anno

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La realtà è scadente, così Paolo Sorrentino fa dire al suo giovane alter ego, Fabietto, nell’ultimo bel film che ha scritto e diretto, E’ stata la mano di Dio.

Sì, la realtà può arrivarci alquanto misera, ed ecco perché poco più di un secolo fa il cinema si è aggiunto alle altre arti. Allora, io? Mi sono chiesto? Io che alla realtà ho dedicato il mio ormai lungo percorso da regista-documentarista? Mi sono illuso di crederci? Ho forse sbagliato tutto? Me la sono sempre cavata affermando che la realtà è quello che sappiamo e vogliamo vedere. Ma è proprio così? Siamo ancora in grado di credere che la realtà superi spesso la fantasia, come afferma il grande Zavattini?

Da questo covid che insiste a non lasciarci sembrerebbe proprio di sì. Chi avrebbe mai immaginato dei giorni così infausti qui nel mondo reale? Mentre il cinema, invenzione prometeica, se andiamo un po’ indietro nel tempo, questo stato delle cose l’ha saputo intercettare eccome! L’aveva predetto, per esempio, con alcuni film di genere, anche bruttini, del dopoguerra, i più americani. Ricordate La cosa di un altro mondo?

Dunque bisogna staccarsi dalle faccende terrene per arginare la scadente realtà? Non necessariamente. E provo a spiegare il perché.

Fermo restando che anche l’immaginazione possiamo considerarla parte del mondo reale, la realtà può trasformarsi in poesia, dentro e fuori il cinema, basta saperne cogliere le piccole e grandi rivelazioni che ci arrivano dal quotidiano. In America beauty, di Sam Mendes, nell’angolo remoto di una strada il vento solleva una banale busta di plastica e la fa danzare. I più non darebbero retta a una volgare busta della spesa trascinata qua e là da un vento dispettoso, ma Mendes, invece, se ne accorge e molto probabilmente ha immortalato quel pezzo di plastica volante chiedendo veloce all’operatore: Dai, accendi la camera, prima che smetta di volteggiare!

Mi viene da pensare che quella busta danzante, poetica e metaforica al tempo stesso, non fosse prevista in sceneggiatura e che il protagonista imbastisce il suo monologo su quella stessa busta, che gli arriva come un inno alla vita, in una scena aggiunta appositamente dal regista.

E allora? Come la mettiamo con lo spleen di Fabietto? Ha ragione Sorrentino?

Sì, ha ragione da vendere, perché la noia si affaccia insistente nel nostro quotidiano, finendo spesso con l’addormentarci. Ma è altrettanto vero che in questo mondo che corre fin troppo veloce un po’ tutti abbiamo smesso di coglierne l’incanto. Scomodo Pasolini, il quale, per dare un motivo al tedium vitae dei nostri giorni, scomodava a sua volta il sacro: abbiamo smarrito il senso del sacro in cambio di una vita più comoda e agiata, e ora non siamo in grado di vedere quello che ci accade intorno, né di meravigliarci; non cogliamo la poesia delle cose, come non cogliamo, insieme alla bellezza intorno a noi, la sofferenza che circonda tutti noi. O, meglio, non sappiamo-non vogliamo più cogliere l’oltre che può albergare dietro ogni realtà, la magia come i lati più oscuri e inquietanti. Beninteso, un oltre non necessariamente religioso, ma che consiste nello stare più profondamente sulle cose e sui sentimenti, e che sonnecchia dentro ciascuno di noi, dunque anche laico. Contadini e pastori, pur oppressi dalla miseria, rabdomanti inconsapevoli, sapevano invece cogliere il senso della vita con discernimento e anche con poesia, attraverso il canto, le leggende narrate a sera intorno al fuoco, il culto dei santi e degli angeli. Rimpianto per un’età dell’oro che non tornerà più? Nostalgia senile e conservatrice? Non credo proprio.

Qualche giorno fa, passeggiando in via Merulana, ho incontrato una donna che non vedevo da tempo, frequentata in passato per motivi di lavoro. Come me e come (quasi) tutti portava la mascherina. E, mentre ci scambiavamo gli auguri di buon anno, osservavo i suoi occhi, vivi e malinconici al tempo stesso. In passato non mi ero accorto quanto sia intenso lo sguardo di questa ora quarantenne dagli occhi di ragazza. E ho pensato che sia stata proprio la mascherina a rivelare questa bellezza inattesa. Sì, proprio quella mascherina che tutti detestiamo perché cancella la bocca e ci toglie soprattutto il respiro, facendoci sentire prigionieri al pari dell’effetto di una museruola sul cane.

Si può cogliere anche altro dall’immediatamente visibile, e questo altro ce lo suggerisce proprio la realtà, compresa quella più dura e incongruente. Il problema è che oggi siamo così presi dal desiderio che tutto debba filare liscio, da non accorgerci che il trucco, se cosi vogliamo chiamarlo, è nel saper cogliere l’inatteso che ci giunge da una realtà visibile e anche invisibile. Ecco, allora, che Fabietto, futuro grande regista, perdendo i genitori e provando un dolore indicibile, imparerà a vedere quello che gli altri non vedono. Perché è proprio la realtà – una realtà tragica che non auguro a nessuno, naturalmente – ad avergli concesso la statura del rabdomante, facendolo infine diventare un narratore. Ed è vera una cosa: il costo di questa grande energia creativa è comunque alto, perché nulla è gratuito a questo mondo.

Morale della favola? La realtà è sì scadente, e certe volte assai crudele, ma è solo a partire da lei che possiamo trovare le nostre epifanie.

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