Home Sweet Home è l’inquietante lungometraggio, diretto da Tran Huu Tan, che gli organizzatori del 18° Asian Film Festival hanno scelto per aprire, il 22 giugno al cinema Farnese di Roma, uno specifico e succoso appuntamento ribattezzato “Vietnam Day“.
Trattasi di un’allettante vetrina tutta dedicata al cinema realizzato oggigiorno nella nazione del Sud-Est asiatico. E può far sorridere, volendo, che il mito e la calibratissima costruzione narrativa di Perfetti sconosciuti abbiano fatto breccia anche lì: lo stesso giorno vi è infatti in programma Blood Moon Party, ennesimo remake dell’agrodolce commedia di Paolo Genovese. Dopo la versione spagnola firmata Álex de la Iglesia, dopo quella russa, dopo quella polacca, dopo quella coreana, un ulteriore indizio di come il plot così attuale del premiatissimo film italiano abbia fatto centro.
Un horror dalle atmosfere retro
Torniamo però sui sentieri dell’horror. Torniamo anche “sulle sponde del Mekong“, a voler citare di sguincio quel canto sulla Guerra del Vietnam, un tempo assai popolare, che si intitola Lettera alla mia amica. Nel caso di Home Sweet Home, però, non sono di scena i fantasmi del sanguinoso conflitto, bensì quelli di determinate dinamiche sociali, avvizzite e decadenti, che condurranno un piccolo nucleo famigliare verso la rovina.
La suggestiva location dell’horror, già selezionato nel 2019 in un festival prestigioso come quello di Busan in Corea, corrisponde per l’appunto al delta del Mekong, qui rappresentato retrodatando l’azione ai primi anni ’90. Si respira pertanto un’atmosfera decisamente “vintage”. Un clima stantio, quasi immobile nel tempo, che si può facilmente dedurre dall’abbigliamento degli interpreti, da quelle dimore coloniali che sembrano riemergere dalle nebbie della Storia o dal segmento francese di Apocalypse Now Redux, dallo stesso stile di vita dei protagonisti che osserviamo barcamenarsi tra debiti, passatempi viziosi e giochi di carte evidentemente popolari da quelle parti. Nella morbosa e alquanto estetizzante cornice iniziale si scorgono d’altronde i primi indizi della terrificante tragedia famigliare in corso.
Breve ellissi. E il ritorno a casa dall’ospedale del giovane rampollo di quella famiglia, Thien Tam, vittima a sua volta di un misterioso incidente, porta lui e lo spettatore sulle tracce di orribili segreti che hanno al centro l’inspiegabile scomparsa della cugina; una ragazza molto cara sia a lui che alla governante, ma da sempre vessata in quel clan dalle regole rigide. Complici alcuni fatti soprannaturali, ne conseguirà una serie di allucinanti scoperte…
Parafrasando gli stilemi del J-Horror
Ectoplasmatiche figure femminili dai lunghi capelli corvini, riflesse all’improvviso negli specchi di casa. Sogni inquietanti che conducono ai margini della foresta o di insidiosi specchi d’acqua. Riti per i defunti. Come si è visto spesso nel cinema del Sud-Est asiatico, vedi anche la vicina Thailandia, Tran Huu Tan pare riprendere gli stilemi del J-Horror trasferendone l’essenza dal Giappone alla cultura locale. L’atmosfera sinistra e vagamente atemporale del film funziona. Sebbene l’elemento più efficace di Home Sweet Home sia poi la critica sotterranea e velenosa a un sistema sociale mefitico, per certi versi di natura ancora patriarcale, che vorrebbe il destino delle figlie femmine subordinato a un culto quasi asfissiante dell’unico erede maschile. Forse troppo affrettato il percorso che porta al rocambolesco twist finale, al repentino ribaltarsi (secondo una prassi consolidata, però, in molte produzioni di genere asiatiche) delle coordinate di base del racconto. Fatto presente l’iniziale sbigottimento dello spettatore, la forza corrosiva e le tensioni del racconto restano comunque alte.
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