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Una trilogia ideale. Gli esordi del cinema di Bigas Luna

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Bigas Luna è al contempo il più noto regista catalano e uno dei peggiori della storia del cinema, quantomeno nella valutazione cronologicamente complessiva del suo percorso di autore. Del resto non è infrequente il caso di cineasti assurti alla fama ma sostanzialmente sovrastimati dal pubblico e persino dai festival internazionali, per una qualche oscura forma di distorsione mentale. Circostanza paradossale, quella di Bigas Luna, in quanto egli ha saputo darci agli esordi della sua carriera alcune opere degne di estremo interesse ed esteticamente compiute e originali, indagini di sessualità maniacale gravide di feticismo funebre e antiautoritarismo lirico. Ma presto è giunta la maniera, e con essa la catabasi alla pochezza intellettuale: l’erotismo si è fatto svenevole morbosità a basso costo, i riferimenti culturali hanno finito per apparire pretenziosi e ridicoli, il senso della trasgressione ha ceduto il passo ad una volgare addizione di scene scabrose totalmente svuotate di senso, e il concetto stesso di cinema si è ridotto allo stereotipo più triviale del consumo. La carriera di Bigas Luna si ispira a un narcisismo grezzo e lussuoso e a una ricerca forzata dell’eccesso. Su questa strada, Luna si condurrà pure a quel capolavoro rovesciato del trash che è il suo film Bambola (1996), spreco di pellicola ideale solamente ad illustrare gli eccentrici cataloghi del cinema spazzatura. Oggi non rimane che il rimpianto per quel suo primo cinema che fu.

L’esordio notevolissimo di Bigas Luna avviene con Tatuaje (1978). Tratto da un romanzo, uno dei migliori, di Manuel Vázquez Montalbán, il film adopera il pretesto dell’opera di genere – caro ai cineasti catalani – per tentare il discorso del noir come indagine entomologica della città di Barcellona, con i suoi angoli oscuri e i suoi vicoli malfamati, e con l’umanità sordida dei suoi abitatori. Il detective Pepe Carvalho si muove come un filosofo cinico tra le strade erose del Barrio Chino, luogo eletto della perdizione e del consumo del sesso, laddove il film ha inizio e laddove si conclude, in un eterno ritorno ossessivo. Inoltre, il film si apre sull’immagine della troupe intenta a fissare la prima inquadratura, così squisitamente si fa strada quella distanza metacinematografica (ancora più saturata dalla presenza di numerosi elementi fuorvianti) che realizza l’effetto di una visione critica e sociale della pellicola. Pure se l’equilibrio tra esigenze commerciali ed esigenze espressive è mancato, il cineasta del “dettaglio ossessivo” non ha requie nella sua indagine e descrive la città – pure nei suoi momenti inerti, nei suoi silenzi – sull’orlo di una catastrofe, o forse sulle macerie del disastro, e “nello stabilire relazioni visive (lo sguardo oggettivo) e funzionali con i personaggi ne definisce la dinamica interna”. L’occhio di Carvalho non è altro che la protesi dello sguardo del regista, sostituitosi al suo investigatore, che indaga una realtà frammentaria e deconcentrata (che l’uso del piano sequenza contribuisce a segnare come in un labirinto), volgendosi a ricomporre i pezzi di un movente che come sempre ha radici nel sesso e nel denaro.

Il primo successo internazionale arriva con La chiamavano Bilbao (1978), opera paradigmatica della funebre sessualità di tradizione iberica. Giovanni Grazzini, sulle colonne del Corriere della Sera, così ne racconta la storia:

É la storia di Leo, un paranoico nel quale dovremmo leggere le ossessioni alimentate dal consumismo. Non si sa da dove venga né dove vada. Si sa soltanto che vive insieme a Maria, un’ex attrice amante di suo zio, il quale lo mantiene ma saggiamente l’ha messo alla porta, e che ha un’idea fissa: possedere Bilbao, prostituta e cantante. Nella propria camera, circondato da macchine fotografiche, nastri e giradischi, ne venera l’immagine e vagheggia la presenza. Quando invece se la porta a casa, non sa muovere un dito. Preferisce spiarla per strada, ascoltarne la voce registrata, sfiorarla in autobus. Il massimo del piacere sarebbe, per lui, versarle fra le gambe un bricco di latte, come fa con Maria, e vederla galleggiare nel vuoto. Un giorno si decide. La rapisce, la nasconde in un magazzino, e con fili e corde la sospende nuda all’aria. Bilbao è priva di sensi: un oggetto inerte che si lascia fotografare, depilare il pube e bagnare di latte. Leo sembra felice; ora può dormirle accanto, legarla alla sedia e godersi i suoi filmetti pornografici. Non gli importa che sia sempre vinta dal cloroformio, né tenta di violentarla. Gli preme carezzarla e darle ogni tanto una meticolosa leccatina. Però l’uomo è distratto: non si è accorto che Bilbao ha battuto la testa, e ora è morta. Disperazione di Leo fra le braccia di Maria e sollecita corsa ai ripari. Mentre Bilbao finisce maciullata in una macchina per salsicce, il suo innamorato ne incensa la memoria.

L’elemento centrale del film sembra essere la riconduzione ad un universo di pura materialità dei sentimenti delle persone, quel processo di reificazione deformante, di notevolissimo spessore linguistico, che si realizza nel principio della sospensione totale tra realtà e finzione. Questo mondo di oggetti e di suoni (in una congiunzione casuale e surrealistica) domina grandemente il film: la canzone di Kurt Weill perennemente suonata da un disco sempre più graffiato, il rumore delle calze di Bilbao, il registratore di Leo in funzione continua, la disposizione delle cose come in un museo del modernariato, tutto un intero catalogo di oggetti che contribuisce a legittimare un dominio sulla vita che invece sfugge e non si realizza, nell’utopia del possesso della donna come un’astrazione. Il protagonista confonde l’essenza immobile degli oggetti (che dominano con la loro minacciosa fissità) con l’ordine mobile dei sentimenti, finendo per rappresentare una condizione di sconfortante alienazione umana in uno scenario altrettanto alienato e solitario, sordido e delirante paesaggio terminale. L’impossibilità di una autentica individuazione spirituale, per lui, si risolve nel tentativo di possesso dell’impossibile, attraverso il feticcio rovesciato di una donna che incarna la coattiva serialità del sesso e che si riduce così a pura merce, a basso strumento di una fantasia schizofrenica. L’immensa solitudine del protagonista è ben leggibile in un suo lungo monologo del film e nella rappresentazione di una sessualità impotente che ancora più rifulge sull’inespressività significante degli oggetti: un sesso congelato che non mostra mai un amplesso compiuto, un sesso eternamente procrastinato e mai consumato, eseguito nella sua pratiche affini (sessualità mercificata, fellatio, depilazione intima) ma mai esposto alla congiunzione di un rapporto penetrativo. Nella progressione dei cupi spostamenti della monomania ossessiva del protagonista, nell’ordine vertiginoso del suo tempo e del suo spazio, non rimane che la tragica preghiera del ricordo, la commemorazione dolente sulle immagini oscene del mattatoio, luogo simbolo che tramuta la carne umana in cose. Stilisticamente, si è detto di “un rigore quasi bressoniano” del film, ma francamente il paragone è eccessivo; semmai, per lo stile impeccabile (pure nei momenti sgranati e sporchi delle riprese in super 8), per la tecnica di regia che privilegia il primo piano (con la macchina a mano anche per gli esterni) e l’epifania visiva, per l’oggettività antianalitica dello sguardo, esso ricorda certe opere di Marco Ferreri, con la loro descrizione di un mondo di oggetti prevaricante e l’orrore per la società dei consumi che non produce che beni morti.

Caniche (1979), il suo terzo film, è la storia di due fratelli, Bernardo ed Eloisa, orfani di entrambi i genitori; lui è segretamente innamorato della sorella, lei dedica tutte le sue attenzioni a un barboncino, da cui ricava anche un piacere sessuale di cui Bernardo è ossessivamente geloso. Dopo che lui tenterà di sodomizzare un cane lupo, i due fratelli si uccideranno a vicenda a morsi violenti, mentre il barboncino troverà la strada della fuga e della libertà.

Il regista inventa una trama che è un puro delirio per uno dei suoi apologhi più grotteschi: iconoclasta, antiborghese e antisociale, il film esamina fino alla consunzione un destino di turbe psicologiche convergenti e votate all’annullamento più feroce. Nello scenario dolente di una borghesia parassitaria e autofagocitante, Luna affronta i tabù dell’incesto e della zoofilia (non mancando di una sanissima ironia, del tutto perduta in seguito) attraverso la storia di questi due fratelli – che sembrano evocare, nel nome, Eloisa ed Abelardo – che vivono nella solitudine di una villa in rovina alla periferia della città, fino a che l’isolamento e la loro intima condizione di orfani non produrrà, come in un film di Buñuel, la tragedia. Opera sull’Edipo ma anche opera sul potere, che domina in virtù della sua forza (si pensi ai momenti in cui al cane viene dato da mangiare la carne di altri cani) e che svetta selvaggiamente fino all’anarchia delle proprie azioni, quella zoofilia che è il punto più basso della degradazione sessuale. Diversamente che per i film precedenti, il regista cura molto la messinscena non contravvenendo mai al suo principio di cronaca entomologica e così tenendo la macchina da presa fissa sui suoi personaggi, si concentra sui gesti minimi e sui dettagli in una realizzazione che appare comunque più sobria e meditata. Se l’opera precedente era più ingegnosamente corriva, questo film possiede una struttura determinata che inscena la psicosi per opera di una narrazione sapientemente calcolata, pure quando questa non è altro che il sibilo vaniloquente di una lingua ridotta a “puri fantasmi reificati”. Lo scenario logico è totalmente invertito, la gerarchia dei valori rovesciata: se ai cani si destina un cimitero per il loro riposo eterno, gli uomini regrediscono fino alla ferocia e alla dissennatezza delle bestie, fino a consumare con loro il piacere sessuale e le perversioni della sodomia (nella scena del cane lupo, che, peraltro, non è che il surrogato emotivo del desiderio sessuale frustrato per la sorella). Non rimane così che la morte come unico scenario possibile, il silenzio morale dello schermo.