Valentina Bellè ha ricevuto, alla XXIIa edizione del Dorico International Film Fest, il Premio Femminile Plurale “per il grande talento di attrice che ha saputo raccontare un femminile lontano dagli stereotipi, fresco, moderno, combattivo e inconsueto, capace di essere un punto di riferimento per le giovani generazioni”. L’abbiamo intervistata in esclusiva per raccontarci il suo percorso di attrice, il laboratorio dietro il suo mestiere.
Dorico International Film Fest nasce come Festival di cortometraggi. Che rapporto hai con questa forma narrativa che pure è stata alle origini della tua carriera di attrice?
Io amo i cortometraggi ed è il motivo per cui sono qui. In questo cinema breve scopro autori e attori che ignoravo. Sono entusiasta della selezione finale, mi spiace solo che tutti i registi fossero uomini.
Codirettore del Dorico International Film Fest è Daniele Ciprì, regista del tuo anno di debutto nel lungometraggio, con La Buca, nel 2014. Che ricordo ne hai?
Ero giovane, erano le mie prime esperienze. Per me era tutto nuovo, molto emozionante, sentivo di dover ancora prendere le misure della macchina cinema. Poi Daniele Ciprì creava un clima di grande simpatia sul set.
Alla XXII edizione del Dorico International Film Fest hai ricevuto il Premio Femminile Plurale. Come si può raccontare il mondo femminile nel cinema al di là degli stereotipi?
Io credo che, semplicemente, ci debbano essere più donne a scrivere di noi, per come siamo, attingendo alle nostre esistenze. Io penso che qualsiasi mia scena di vita quotidiana non si veda al cinema: come vivo, come mi sposto nel mondo, come interagisco con le persone, non siamo veramente raccontate, ma sempre un pochino stereotipate, al servizio di un immaginario soprattutto maschile. Credo che bisogna rimescolare le carte.

The Good Mothers
Tu credi che esista una responsabilità come attrice, come modello per qualcuno?
Sì, l’ho sempre pensato. Questa responsabilità che sentivo sicuramente ha modificato i miei atteggiamenti. Sei responsabile delle tue scelte come attrice. Sei responsabile delle storie che scegli a raccontare. Sei un po’ meno responsabile rispetto alle tue scelte personali, al rapporto che hai con la tua immagine, con il tuo corpo. Quello lo sto un po’ decostruendo.
Com’è nata la tua vocazione e poi il tuo percorso di attrice?
Io volevo recitare, sapevo solo questo, però non vengo da una famiglia che mi ha formato, di cinefili che mi hanno introdotto in questo mondo, quindi non sapevo bene come muovermi. Avevo solo una conoscenza che era andata a New York a studiare in una accademia, con il metodo Strasberg, di cui non sapevo niente. Però ero molto curiosa. Alla fine sono riuscita ad andarci, ma ci sono stata molto poco, perché costa tantissimo vivere e studiare a New York, insomma cinque mesi, non di più. Però è stato molto affascinante, soprattutto per una ragazza che aveva 19 anni. Una folgorazione. Dopo sono andata a Vienna, perché volevo continuare a studiare il metodo e in Italia lo facevano a Roma, ma l’ho scoperto dopo, grazie a Michael Margotta, di cui sono stata allieva, poi sono entrata al Centro Sperimentale. Continuo a studiare, ma il metodo l’ho abbandonato, ho capito che non fa per me, alla fine.
Ho letto che hai iniziato la tua carriera nel mondo dello spettacolo come modella. Che ricordo hai di quell’esperienza, di quell’universo dell’immagine femminile?
Avevo bisogno di soldi proprio per andare a New York e, piuttosto che lavorare al bar, ho fatto la modella. Sono andata a Milano per quattro mesi ed è stata un’esperienza orribile, non ha funzionato, neanche dal punto di vista economico. La modella la puoi fare solo se hai un certo tipo di mentalità e fisicità, altrimenti è un mondo doloroso, terribile, spersonificante. Per me è stato disumanizzante. Vedevo delle ragazze fatte per quella roba lì, magari in quel caso credo possa anche essere entusiasmante.

Romulus II
Che cosa ti piace di più del tuo mestiere di attrice?
Studiare, io non posso fare senza. Questo è un aspetto fondamentale, la formazione continua. Spesso si pensa che gli artisti famosi, registi, attori, musicisti abbiano già tutto in mano, invece il trucco sta proprio nel mettersi sempre in gioco. Ho capito, con gli anni, che la cosa bella di questo mestiere è il percorso, mai concluso. La formazione, per questo, è fondamentale, mi spalanca dei mondi. In questo periodo sto lavorando con la voce, voglio capire che strade mi apre, come mi trasforma, quali altri strumenti mi dà. Mi piacerebbe uno studio più specifico sul corpo, sul movimento, per riuscire ad affrontare ogni ruolo con consapevolezze nuove. M’interessa molto anche cercare la contaminazione tra i vari approcci. Spesso si è strumenti nelle mani dei registi, io sono un’attrice un po’ diversa: a me piace far parte del processo, propormi, non essere solo al servizio di una visione altrui, ma poter dire anche la mia.
Come si fa a non ripetersi come interprete, film dopo il film?
Prendendosi delle belle pause tra un film e l’altro. Ci sono tanti colleghi che non le concepiscono e sbagliano, secondo me. Perché le pause, il non lavoro, la vita vera, tornare a chiedersi un po’ chi si è, quali sono le cose che ti piacciono, frequentarsi nella solitudine, rimanere nel vuoto che ti rivolta, ti fa crescere come attrice. Cambi come persona, ti rendi conto di che donna o uomo stai diventando, ti nutri di questo e, allora, è impossibile ripetersi.
Come scegli i tuoi personaggi e poi come li costruisci?
Non ho un metodo fisso, per me tutto è in evoluzione, in continua scoperta. Non sono arrivata a un punto in cui dico adesso so come si fa questo mestiere. Ogni volta è diverso. Sicuramente ogni anno mi rendo conto che sono cresciuta, che qualcosa di diverso accade nell’approccio a un personaggio a cui lavoro. I personaggi li scelgo con il desiderio che ho d’indagare qualcosa della mia vita. Cioè, magari voglio scoprirmi in un certo modo e vedo che un personaggio me ne dà l’opportunità. Così c’è la possibilità di un incontro vero con il personaggio, l’entusiasmo della ricerca, il modo più bello di lavorare. Questo sicuramente è un principio. Poi ci sono alcune occasioni che m’innamorano, come la possibilità di collaborare con un regista che ho sempre ammirato.

ACAB – La serie
Oggi c’è ancora una differenza tra serie televisive, in cui pure molto hai lavorato, e cinema?
Dipende da quali serie. Ce ne sono alcune di alto livello nelle quali si sente molto poco la differenza con il cinema. Si trovano anche lì buoni registi e budget tali da potersi prendere i tempi giusti. Ho fatto serie in cui giravamo tre scene al giorno e film in cui ne giravamo quattro. In generale, sarebbe bello fare poche cose memorabili, però poi bisogna anche campare.
Nel 2017 sono usciti tre film con tue interpretazioni diverse, ma ugualmente appassionanti e appassionate: Il permesso (Claudio Amendola), Amori che non sanno stare al mondo (Francesca Comencini), Una questione privata (fratelli Taviani). Che ricordo hai di un anno così magico, che ti ha portato alla ribalta del grande cinema?
In effetti è stato un anno incredibile. Mi ricordo che non stavo per niente bene, passavo un periodo molto difficile della mia vita. Ero molto vulnerabile. E non so se, mi sono anche chiesta, proprio per questo mi prendevano tutti. Se questo mio malessere mi rendesse più interessante. Quindi è stato entusiasmante, ma anche complicato, perché stavo lottando dentro me stessa. Però il lavoro mi ha aiutato a uscirne. Anzi, mi ha proprio salvato. Sono particolarmente affezionata ad Amori che non sanno stare al mondo, che trovo un film bellissimo e poco riconosciuto, una tragicommedia scritta e girata benissimo, un film veramente sentito. Per me è stato meraviglioso farne parte.
A natale uscirà al cinema Primavera, di Damiano Michieletto, con al centro la figura di Antonio Vivaldi. Tu che rapporto hai con la musica e la musica dentro il cinema?
Mi piacerebbe aprire a un certo punto nella mia carriera quel canale e vedere se con la musica posso lavorare in preparazione di un ruolo. Un pochino ci ho provato, ma non in modo realmente profondo. Mi creo talvolta delle specie di colonne sonore mentre recito. Quanto al mio rapporto in generale con la musica, la amo! La ascolterei continuamente, anche se, ultimamente, ne ascolto molto meno perché i podcast stanno dominando la mia routine, ne sono diventa dipendente. Per me la musica è l’arte più straordinaria. Devo dire mi piacciono e m’interessano tutti i tipi di musica.

Primavera
Ti è mai capitato di lavorare con un regista che utilizzava la musica mentre girava?
Sì, mi è successo proprio in Amori che non sanno stare al mondo, per una scena di sesso e devo dire che ha aiutato moltissimo. Adorerei che questa situazione fosse più frequente sul set. Ti faccio un esempio: qualche giorno fa ero al parco per portare fuori il cane e ascoltavo la colonna sonora di Primavera, che è già su Spotify. Ci sono musiche originali e qualcosa dello stesso Vivaldi e del suo tempo. Ascoltavo questa musica e già diventavo qualcos’altro, camminavo diversamente, guardavo diversamente, così io dovrei lavorare con la musica.
Da anni si dice che il cinema italiano è in grande crisi. Dal tuo punto di vista è veramente così?
Sì, credo sia il periodo più buio da quando ho cominciato questo mestiere. Mi viene un po’ da ridere perché ricordo che, quando studiavo al Centro Sperimentale, Giancarlo Giannini ci disse la stessa cosa e io mi arrabbiai tantissimo. Dopo tredici anni mi viene da dire esattamente così. Però aggiungo che, a differenza di Giancarlo Giannini, credo che i tempi bui siano il momento migliore per cominciare qualcosa di nuovo. È per questo che, quando vedo dei cortometraggi belli, sono pazza di gioia. E dico che i giovani di talento ci sono e questo è importante. Non è vero che tutto è un disastro. Basta trovare un modo di fare qualcosa. Non ci sono i soldi, facciamo con meno soldi.
Il problema è nel passaggio dal cortometraggio al lungometraggio.
Questa è la verità. Cominciare la produzione di un film in questo momento è sconveniente. Per tutto quello che stanno combinando il governo e le istituzioni. Oggi bisogna essere molto coraggiosi, ma si deve riuscire. Il problema è costruire una filiera che permetta a questi giovani autori di arrivare in sala, un tema annoso, di cui si discute da tempo. Le voci non mancano, il problema è offrire loro la giusta visibilità.

Una questione privata
Prima hai parlato della necessità di riscrivere i personaggi e i ruoli femminili. Hai mai pensato di farlo in prima persona?
In realtà sto scrivendo qualcosa proprio in questo periodo. Una cosa cominciata un po’ per gioco. Sto scrivendo una sceneggiatura insieme a una mia amica, la regista Maddalena Crespi, con cui ho girato il cortometraggio Miranda’s Mind. È tutto in fase molto embrionale, però è un’esperienza importantissima per me, perché mi fa capire meglio tante cose anche delle sceneggiature che leggo.
Qual è il soggetto?
La mia esperienza, la nostra esperienza, di una generazione poco raccontata, che sono i 30 anni, a me interessa questo. Di solito si punta sui giovanissimi oppure si salta direttamente ai quarantenni. Vorrei parlare di vite ordinarie di questa generazione qui.
Ti vedi anche a dirigerlo?
Non so, ogni tanto ci fantastico, non credo di avere davvero quel talento, ma chissà. Se capita che mi vien voglia lo faccio. Magari con un amico aiuto regista che mi consiglia. Con uno sguardo fresco possono uscire cose nuove. Il mio lavoro è l’attrice, quello voglio fare, tutto questo viene fuori anche da un momento di crisi che molti di noi stanno attraversando, perché non stanno lavorando o stanno lavorando molto poco. Per quanto io possa essere una sostenitrice delle pause, sì, ma fino a un certo punto. Sono tutti tentativi di uscire da questa situazione.
Il 2026 ti vedrà anche a teatro, con Luca Marinelli, in un progetto ispirato a Italo Calvino.
Sì, si chiama La cosmicomica vita di Q, tratto dalle Cosmicomiche di Italo Calvino, un testo difficilissimo da trasporre. Luca Marinelli ne è protagonista e regista, l’abbiamo presentato al Festival di Spoleto quest’estate. È stata la mia prima esperienza sul palcoscenico. Il teatro per me era un sogno. Mi erano già arrivate altre proposte, però avevo l’impressione fossero qualcosa del tipo prendiamo l’attrice di cinema e televisione e le facciamo fare uno spettacolo, operazioni un po’ così, che non mi convincevano. Avevo un po’ paura di fare una scelta sbagliata. Con Luca Marinelli, invece, mi sono sentita subito sicura, perché è un caro amico, un attore e un visionario. Mi è sembrata l’occasione perfetta.
