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COSA SARÀ è un film destinato a rimanere. Conversazione con Francesco Bruni

Francesco Bruni racconta la malattia con i toni della commedia giungendo a una catarsi che non è solo privata ma anche collettiva.

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Prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti Cosa Sarà di Francesco Bruni racconta la malattia con i toni della commedia giungendo a una catarsi che non è solo privata ma anche collettiva.

Mi sembra che nelle due sequenze iniziali, a livello di montaggio, tu intrecci passato e presente del personaggio creandovi molteplici relazioni di causa effetto. Quella che all’inizio sembra un’esistenza in sottrazione, capace solo di togliere senza dare, a conti fatti si rivelerà al contrario  generosa nei confronti di Bruno Salvati. Le due sequenze finali ne sono la certificazione.

La scena del furto delle macchinine è praticamente il mio primo ricordo ed è segnante perché parla del tradimento della fiducia verso il prossimo. Nella realtà non c’è stata una restituzione, mentre qui valeva la pena farla avvenire, perché in qualche modo è il simbolo di quello che viene restituito al protagonista e cioè l’affetto dei suoi cari, le cure mediche, la vita. Se hai fatto caso nel film non è chiaro se la sequenza della restituzione sia un ricordo o un sogno.

Addirittura gli viene restituita una sorella di cui non sapeva nulla e per esempio la stima del padre, che da piccolo lo considerava poco virile.

Esatto, però quello è il problema minore, come lo è anche quello professionale, che evidentemente gli causa molta frustrazione e infelicità. Sono tutte questioni causate dall’incapacità di sollevare lo sguardo da sé stessi, che poi è quello che il personaggio impara a fare durante il film. Tante cose di cui ci crucciamo sono per l’appunto dispiaceri inutili. Le frustrazioni,  il malumore e la misantropia sono atteggiamenti di cui Bruno  a un certo punto saprà  fare a meno. Poi non so se diventerà un regista di successo, se si affermerà, questo non è importante, non lo è per niente.

Il personaggio di Bruno Salvati si confà in maniera perfetta a quelli che lo stesso Kim Rossi Stuart propone nelle sue regie. Uno dei temi che vi appartengono è infatti quello della crisi della mascolinità, di quel cosiddetto sesso forte, che in Kim coincide anche con la messa in discussione della sua immagine di sex symbol.

Certo, si tratta di uomini deboli. Con Kim fin dall’inizio c’è stata sintonia. Appena ha letto la sceneggiatura ha detto di voler fare il film e su questa scelta penso c’entri un’affinità artistica approfondita nel corso degli anni in cui ci siamo scritti e abbiamo parlato dei rispettivi film. I suoi mi sono sembrati tutti e due molto interessanti e coraggiosi, proprio perché affrontano la figura del maschio in una maniera assolutamente insolita, specialmente per uno che ha l’immagine di uomo bellissimo e forte. Una versione che però Kim rifiuta. La distanza dagli aspetti glamour, dalla popolarità, dalla rappresentazione di sé come idolo  è uno dei temi del suo cinema e sono sicuro ch continuerà a trattarlo.

Il primo piano di Kim Rossi Stuart sottoposto alla rasatura dei capelli, insieme alle sequenze appena menzionate, sono testimonianza di un cinema in cui immagini e montaggio arricchiscono le chiavi di lettura del testo narrativo. In questo senso, il taglio dei capelli mi è sembrata una scelta azzeccata, perché la malattia  è reso ancora più traumatica dal vedere deformata l’immagine di Kim privato di un elemento della sua bellezza.

Eravamo consapevoli che quello era un punto di non ritorno, anche perché è una rasatura vera, fatta nel momento in cui non c’erano più scene di lui con i capelli. Kim si è prestato senza alcuna esitazione, ma anzi con una forte volontà di farlo,  forse corrispondente anche al desiderio di spogliarsi dell’immagine di bello che per gli attori più intelligenti, è obiettivamente una condanna. Quella è una scena avvenuta anche durante il mio ricovero. La volevo rappresentare perché per me è stata fondamentale, nel momento in cui avevo deciso di tagliarmi i capelli per non vederli cadere,.

In quella scena la scelta di una canzone come Perfect Day  è tutt’altro che casuale. Le parole di Lou Reed fanno da contrappunto alle effusioni dei due innamorati che Bruno scorge  dalla finestra della sua camera d’ospedale. La nostalgia scaturita da quella visione, unita alla drammaticità del momento, sembrano evocate da quella sinfonia musicale.

Quella canzone l’adoro, è meravigliosa perché è struggente, romantica ma anche molto disperata. Nonostante il testo, suona amaramente ironica, diciamo così, in un momento come quello. È chiaro che uno le vorrebbe sempre queste canzoni, però il loro costo è altissimo. Con i montatori abbiamo provato  a poggiarla su quella scena  e l’effetto è  stato così bello, così potente che per fortuna la produzione non se l’è più sentita di rimuoverla e quindi si è data da fare per averla. È importante sapere che se nei film ci sono delle belle canzoni non dipende dal buon gusto del regista, ma dai soldi della produzione che ne paga i diritti (ride. Ndr)

Allora rendiamo merito anche alla Palomar e a Carlo degli Esposti.

Diciamo grazie infinite.

Immagino che si scriva innanzitutto per se stessi e poi anche per gli altri. In Cosa sarà mi sembra che i due livelli siano messi sullo stesso piano, perché l’esperienza della morte sullo schermo risulta catartica sia per te che la racconti che per me che la guardo.

Io ho scritto sceneggiature originali solo per il cinema, non avendo mai praticato la letteratura in nessuna forma. Quindi, per quanto mi riguarda, tutto parte sempre da un approccio personale,  a volte anche di autoanalisi, come in questo caso. Diciamo però che c’è sempre  l’attenzione o il riflesso istintivo di pensare a un pubblico. Se sto scrivendo qualcosa di molto intimo, e a un certo punto mi accorgo che può comunicare a me e a poche altre persone, lo abbandono. Se porto in fondo la scrittura di un soggetto – i miei raggiungono sempre una quarantina di pagine – è perché intravedo la possibilità di un racconto che appassiona molte persone; dunque faccio subito piazza pulita di quello che è troppo privato. Mi sono convinto a raccontare questa storia, che è molto personale, perché ad un certo punto ho capito di dovermene allontanare, creando un racconto appassionante e divertente, capace di coinvolgere il pubblico. Vi ho inserito molti elementi di finzione, perché il mio bollettino medico da sé non avrebbe retto un film.

In continuità con i i tuoi film da regista, Cosa sarà mi sembra segnali una caratteristica del tuo cinema, che è quello di raccontare in profondità alcuni fantasmi della nostra società: penso alla crisi della figura maschile, alla paternità irrisolta, al desiderio sessuale, ai conflitti generazionali. Si può dire questo a proposito del tuo cinema?

Sinceramente credo di non partire mai da una tematica che possiamo definire grossolanamente sociale o sociologica. Ho sempre raccontato storie di personaggi che mi sono molto vicini, quando non sono addirittura me o i membri della mia  famiglia. Se ci fai caso sono in qualche modo tutti film che partono da uno  spunto autobiografico e che poi,  per forza di cose, intercettano un po’ lo spirito dei tempi. In Scialla si parlava molto di educazione, di scuola; in Noi quattro della crisi della famiglia tradizionale, ne In tutto quello che vuoi del rapporto con la storia, con il passato, con la poesia; qui di certo si parla di quello che hai detto senza però dimenticarsi della sanità. Vengono comunque toccati alcuni ambiti sociologici, ma non partirei mai pensando di fare un film sulla scuola italiana e nemmeno sulle istituzioni mediche.

Cosa sarà  è di un’attualità anche metaforica, perché se la società occidentale ha rimosso la vista della morte dallo spazio pubblico, uno dei grossi traumi causati dal Covid è stato proprio quello di farvela tornare, anche nella sue forme più liturgiche. In questo senso Cosa Sarà, attraverso la malattia di Bruno, fa un po’ la stessa cosa, offrendoci però la possibilità di superarne il tabù attraverso la catarsi.

Questo è uno spunto del quale potrei parlare un’ora, ma cercherò di essere breve. Innanzitutto la malattia e la morte non sono esattamente i benvenuti nel cinema italiano. Nel momento in cui vai a proporre un film e racconti una trama del genere,  ti dicono “no, per l’amor di Dio”, non dico che si toccano, ma quasi (ride, ndr) . In questo caso ho avuto la fortuna di avere un produttore che è innanzitutto un amico: ci conosciamo da ormai venticinque anni, avendo iniziato insieme con Montalbano. Lui mi è stato anche molto vicino nel periodo della malattia e, quando mi ha detto che avremo fatto il film, non è che saltasse di gioia dall’entusiasmo (ride, ndr). Poi, certo, quando è  entrato Kim la cosa ha preso un altro aspetto. Si è  capito che il film poteva avere anche un suo valore commerciale.

Io credo che se Cosa sarà’ fosse uscito a Covid sconfitto, diciamo così, sarebbe diventato un film simbolo, in cui tutti si sarebbero riconosciuti. Avrebbe volato, mentre invece, essendosi imbattuto per ben due volte  nella recrudescenza del virus,  ha  scontato un po’ anche un certo rifiuto emotivo Questo per dire che non sta andando bene come avrebbe potuto in altri momenti. Molti mi dicono di non farcela a vederlo per la paura di trovarsi di fronte un film angosciante, mentre tu avendolo visto puoi dire benissimo che non è così. Anzi, tutti quelli che lo hanno fatto mi dicono che ne sono usciti rinfrancati. Però il rifiuto a priori è molto forte: la vista delle mascherine e la presenza della malattia spaventano. Dunque e’ stato un lavoro  un po’ sfortunato, anche se penso che la storia di un film sia molto lunga e non si misuri più sull’impatto immediato. Speriamo che il mio ne abbia una lunga come la nostra (ride, ndr).

Cosa sarà deve ancora iniziare il suo percorso nella sale, ma già da adesso posso dire che si tratta di un film destinato a restare, anche per come la sua storia si lega a quello dell’intero paese.

Vedo la sala come un rituale collettivo, un luogo in cui ci si può emozionare tutti insieme. Per questo immagino che alla riapertura condividere la visione di un film del genere possa dargli un ulteriore volano emotivo, oltre a quello che ha già di suo e cioè la commozione, e il divertimento che sono molto più forti in una proiezione pubblica. Per non dire del senso di liberazione da questo incubo che ci portiamo dietro ormai da un anno.

A proposito di sequenze, ce n’è una secondo me strepitosa, che va un po’ in direzione di quello che hai appena detto. Mi riferisco alla  presentazione del film di Bruno Salvati nella sala cinematografica ubicata all’interno dell’ospedale. Il contrasto tra la drammaticità del contesto e la leggerezza dei toni ne fanno un momento di pura commedia. Tra l’altro  in mezzo  agli spettatori ti si intravede sorridente in prima fila.

Si, sono l’unico a ridere.

In essa il montaggio e fondamentale. Invece di far vedere il film vero e proprio,  lo spettatore si ritrova a osservare un flash back relativo a un episodio della vita di Bruno Salvati

In particolare del rapporto tra il regista e il suo produttore.

Questo succede perché ci vuoi dire che in realtà quando raccontiamo un film raccontiamo noi stessi? Ti chiedo inoltre se il fatto che alla riapertura delle luci il personaggio di Kim si ritrovi da solo in sala, mentre il pubblico abbandona i posti spinto da improvvisa urgenza, sia un altro modo per dire  che il cinema fatica a stare appresso alla realtà.

Quando ero ricoverato al Gemelli sapevo che lì c’era una sala medicinema bellissima e quindi, un po’ intontito dalle cure, fantasticavo di proiettarvi i miei film e di presentarli agli altri degenti. Ovviamente, questa cosa non ho mai avuto il coraggio di chiederla perché non era proprio il caso. Però mi è rimasta questa fantasia e l’ho rappresentata. In quella scena non c’è la proiezione di un film, perché avrei dovuto pagare i diritti per mettercene uno e poi comunque non era quello che mi interessava. Fra apertura e conclusione della sequenza, ho approfittato per inserire due flashback che raccontassero anche l’origine del malessere esistenziale del personaggio, del suo difficile rapporto con il sistema produttivo cinematografico italiano, in cui però a emergere è tutto sommato la relazione amicale con il produttore.

Ovviamente, sia nella scena della presentazione che in quella del dibattito mancato, non ho perso l’occasione per fare un po’ di ironia sul mio ambiente, di prendere un po’ in giro il cinema italiano spezzando una lancia a favore dei registi che faticano a trovare il pubblico, perché magari si intestardiscono a fare un cinema personale, o di ricerca, che va contro le regole dell’industria. Come capita a Bruno Salvati, che per questo rimane un po’ isolato. Quella scena è allo stesso tempo sinceramente partecipe quanto ironica, perché poi alla fine le paturnie di un regista insoddisfatto sono poca cosa rispetto ai malesseri come quelli dei pazienti di un ospedale.

Lo sfogo di Kim nei confronti del produttore assomiglia un po’ a quello in cui lo stesso attore si produce in Tommaso.  Qui è il regista a venire accusato di fare commedie che non fanno ridere e della pretesa di non utilizzare attori non commerciali. Quanto c’è del tuo pensiero?

Molto. Mi sono messo in una posizione non vantaggiosa nei rapporti produttivi del cinema italiano. Con ostinazione ho sempre continuato a fare commedie con temi molto seri.  Pensa  all’alzheimer di Tutto quello che vuoi, o alla crisi famigliare irrisolvibile di Noi 4: questo per dir che mi sono sempre ostinato a fare scelte di casting controproducenti dal punto di vista commerciale, nel senso che non è che lo facevo apposta, ma se mi ispira scrivere una storia con un novantenne e un ventenne è evidente che non posso pescare nel parco attori commerciali. Per questo motivo ho sofferto in alcuni casi di una distribuzione infelice. Nonostante ciò, Tutto quello che vuoi è uscito a metà maggio ed è andato benissimo. Quindi, sì, a un certo momento mi sono sentito come Bruno Salvati in quella scena e cioè incompreso e arrabbiato.

Nel tuo cinema le figure paterne sono ogni volta infantili. Al contrario, le donne sono sempre forti, specialmente le ragazze. È un tema che ricorre anche qui.

Penso che  la crisi della figura maschile sia un tema epocale, così come il giusto insorgere delle donne pronte a rivendicare parità in tutti gli ambiti, a volte in maniera anche molto violenta. La crisi della figura maschile esiste soprattutto nei rapporti con i figli. Noi siamo una generazione che, diciamo così, e’ stata infantilizzata dai consumi e quindi resa incapace di rappresentare un principio di autorità credibile. Se ti metti a giocare alla PlayStation con tuo figlio e magari continui a giocarci quando lui va a dormire, se ti rapporti con lui in termini amicali, se ti fai le canne di fronte a lui, poi è difficile dirgli di studiare, di andare a letto presto, di non farsi troppe canne. Come padre, tu rappresenti un principio educativo principalmente per come ti comporti, non per quello che dici. In questo film in particolare questa cosa viene fuori in maniera molto forte, perché intorno a Bruno Salvati ci sono quattro donne virtuose, ma non in maniera moralista. Sono  forti perché pazienti, ironiche, generose e soprattutto responsabili: questo mette in chiara evidenza i suoi difetti. Per concludere, vorrei dire che, in un momento in cui le donne rivendicano la loro forza, mi fa piacere poter dire che noi rivendichiamo la nostra fragilità, la nostra debolezza, ed è un po’ come dire:  occupatevi voi di questo mondo, vi diamo il comando e siamo sicuri che saprete meglio di noi.

A livello narrativo questo si traduce spesso in paternità reali, presunte o surrogate. Alcune di esse arrivano fuori tempo massimo.

In qualche modo ognuno si sceglie il padre che desidera. In questa debolezza dei padri veri, ognuno si cerca una figura di riferimento maschile, non necessariamente un padre. In Scialla addirittura quest’ultimo non vuole rivelarsi ed è poi è costretto ad assumersi le sue responsabilità. Ne In tutto quello che vuoi, il ragazzo trova il proprio mentore in un anziano con l’alzheimer. Credo che la mancanza di uomini che possono rappresentare un principio di autorità a cui guardare con ammirazione fa scattare nei giovani questi ricerca.

Nel cinema degli anni ottanta la commedia italiana veniva etichettata come quella delle due camere e cucina, per enfatizzare il suo ripiegarsi su se stessa. Per contro le tue sono spesso in viaggio, per così dire, girate spesso in esterni e dunque pronte a intercettare la realtà contemporanea, colta anche attraverso i cambiamenti del lessico gergale.

Sì, esatto. Questo è il mio protocollo, il mio metodo. Cerco di condurre il più possibile una vita normale, anche considerato i tempi e cioè di muovermi nel mio quartiere, di conoscere persone che non fanno questo mestiere, di prendere i mezzi pubblici. Finché i miei figli andavano a scuola, ero io a occuparmi dei rapporti con gli insegnanti e con gli altri genitori, insomma non stavo arroccato su una torre. Ovviamente così facendo mi sono imbevuto dello spirito del tempo, perché sento quello che dice la gente parlando con persone di ogni estrazione e ceto sociale. Di principio, non ho niente di personale contro gli interni. Mi piace molto il teatro, potrei pure pensare di fare un film che vi si svolge dentro o magari girare in  una casa molto spaziosa.  E’ chiaro che un film come questo, ambientato  per il trenta, quaranta per cento dentro una stanza d’ospedale, deve sfruttare ogni occasione per far respirare la storia. La qualcosa è successa specialmente a Livorno, con quel suo bellissimo paesaggio marino, ma anche nella sequenza ambientata nel campo da golf. Appena ho potuto, ho cercato di girare all’aria aperta,  perché non volevo aumentare la sensazione di claustrofobia che era insita nella storia.

Nei tuoi film sei molto bravo a dirigere gli attori e la domanda che ti faccio è la stessa che ho fatto a Barbara Ronchi parlando con lei del tuo film. Arthur Penn diceva che in definitiva con gli  attori c’è solo una cosa che bisogna fare e cioè  cercare di sgomberargli la strada da eventuali ostacoli, per metterli nella condizione di poter fare al meglio il loro mestiere. Rispetto a questo punto di partenza, com’è la tua direzione?

Innanzitutto quella di scegliere degli attori molto intelligenti e molto sensibili. Li ho sempre presi anche su questa base, arrivando poi a sfruttare il loro contributo artistico per modificare  la sceneggiatura. Questo perché sono persone che reputo alla mia stessa altezza.  Se penso a Lorenza Indovina e allo stesso Kim, a Barbara e a mia moglie, sono tutte persone che spesso hanno letto anche più di me. Poi come diceva Hitchcock: “Quando un attore viene da me e mi chiede spiegazioni sul suo personaggio io gli dico – è nel copione – e quando mi chiede delle sue motivazioni gli rispondo che sono nel suo salario”. Diciamo che per me le risposte sono nel copione, nel senso che io lo curo in ogni dettaglio: oltre ai dialoghi, ci sono le didascalie in cui c’è lo stato d’animo del personaggio. Cerco di essere più chiaro possibile, non solo con gli attori, ma anche con gli altri collaboratori, con lo scenografo il costumista, il montatore, il musicista, perché il testo è la base fondante del film. Poi certamente facciamo letture, facciamo prove, aggiungendo molto spesso suggerimenti che vengono da loro su cose che non gli risultano facili da dire: dunque il testo si modifica parecchio. Non ho bisogno di dare grandi indicazioni  sul set, cioè non dico loro come devono dire e fare, perché veramente a quel punto sono perfettamente sintonizzati con me. Sanno cosa mi piace e cosa no, anche perché lo hanno visto nei miei film precedenti.

Ti posso chiedere cosa ti piace e cosa non ti piace?

In commedia non mi piace la sottolineatura,  il dar di gomito al pubblico; non mi piace l’esagerazione comica. Preferisco che gli attori recitino in maniera piuttosto piana e naturale, mi piacciono i sottotesti che preferisco ai testi. Non mi piace quando gli attori fanno le facce. Mi piacciono gli interpreti eleganti.

Dei grandi attori con cui hai lavorato sappiamo molto. Dunque vorrei soffermarmi sulla tua capacità di scoprire giovani talenti, soprattutto attrici. Era successo con Lucrezia Guidone in Noi 4, qui si ripete con una straordinaria Fotinì Peluso.

Quella degli attori giovani è sempre stata la scelta più difficile per me, proprio perché appunto non posso basarmi su precedenti esperienze e quindi devo incontrarli, conoscerli, parlarci e pesarne soprattutto la sensibilità e l’intelligenza, più che l’aderenza al ruolo. Lucrezia Guidone è stata una scoperta dell’ultimo minuto, fatta quando non sapevo più che pesci prendere. Sono andato a teatro a vedere uno spettacolo di Luca Ronconi in cui lei recitava e mi ha colpito moltissimo per forza e presenza ed era quello che cercavo per il personaggio.

Per quanto riguarda  Fotinì, il  suo è stato il ruolo per cui ho fatto più provini: ho visto attrici anche molto brave, molto convincenti, molto promettenti, però poi è arrivata Fotinì che mi ha conquistato, perché intanto è una ragazza molto intelligente, non è assolutamente fanatica tanto da continuare gli studi universitari con il pensiero che l’esperienza con il cinema possa essere anche una parentesi. Secondo me, lei si approccia con lo spirito giusto. E poi riusciva ad essere contemporaneamente forte di personalità però anche simpatica: non trasmetteva nessuna idea di cupezza, di drammaticità, di sofferenza e quindi in certi momenti  poteva anche risultare buffa. Alla fine quindi ho scelto lei e sono felicissimo di averlo fatto.

Per finire ti chiedo del cinema che ti piace.

Il più disparato, compreso quello distante dai film che faccio. Se devo dirti le mie ultime folgorazioni, queste  sono state Roma di Cuaron, Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman, mentre Diamanti Grezzi dei fratelli Safdie è stata una grandissima scoperta per me. Ho amato moltissimo il film di Susanna Nicchiarelli, Miss Marx,  che mi ha colpito per il grandissimo equilibrio, la maturità e la capacità che Susanna ha dimostrato. Tra i colleghi stimo e seguo sempre con grandissima attenzione sia Paolo Virzì non solo per l’affetto che gli porto, ma anche Gianni Di Gregorio. Considero Mario Martone e Marco Bellocchio i due più grandi registi italiani contemporanei, per la loro capacità di unire cultura e cinema puro. Mi piace molto Daniele Luchetti e ovviamente Nanni che è stato un’apripista per tanti di noi. Però questi sono già più degli ispiratori. Poi posso veramente perdermi in un film di fantascienza, non sono settoriale. Woody Allen per me è Dio, “a qualcuno mi devo pur ispirare” (ride,ndr).

ps. A Paolo Ciriello va il ringraziamento per le fotografie regalate a questa conversazione

COSA SARA’: la videorecensione del film di Francesco Bruni con Kim Rossi Stuart

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