Prodotto dalla Colorado Film e dal 4 dicembre su Prime Video, 10 giorni con Babbo Natale di Alessandro Genovesi è una commedia per famiglie, che fa del divertimento l’occasione per mostrare un cinema scritto, diretto e recitato da protagonisti di primo livello. A cominciare da Fabio De Luigi.
10 giorni con Babbo Natale è un film ben scritto, equilibrato nella messinscena così come nella partecipazione alla storia dei vari personaggi. Rispetto a molte commedie, ha il pregio di non ricorrere a scorciatoie e semplificazioni, oltre ad avere un sottotesto ricco di metafore e rimandi alla realtà contemporanea.
Innanzitutto ti ringrazio. Ho rivisto ieri il film assieme a mia figlia dodicenne e dunque con occhi più oggettivi rispetto a quelli che hai quando lo stai montando. Devo dire di essere d’accordo sulla bontà dell’impianto, con una prima parte in grado di entrare subito dentro la storia, presentandoci in meno di quindici minuti le caratteristiche dei personaggi per poi farti ridere sul nazifascismo del piccolo Tito, per le nevrosi del padre e per l’atavico senso di colpa vissuto dalla mamma per la situazione nella quale è. Tutto questo fino all’arrivo di Babbo Natale, del quale quasi subito conosciamo i problemi di memoria e le altre vicissitudini che concorrono ad aumentare il divertimento dello spettatore. Così facendo, siamo pronti ad accogliere quella che è la parte fantastica e un po’ più emotiva, scandita dal viaggio in camper nei boschi della Finlandia.
Dieci giorni con Babbo Natale secondo me accentua il processodi inversione dei ruoli all’internodella famiglia, sottolineando peròcome ancora si sia lontani da una effettiva equità tra le parti. Nella sua dimensione casalinga,Carlo si fa carico della stessa solitudine e frustrazione di chi svolge da sempre quel ruolo.
Sì, rispetto a 10 giorni senza Mamma qui c’è una semplice inversione dei ruoli, nel senso che abbiano ribaltato i compiti di uno e dell’altro con Giulia che va a lavorare, lasciando a Carlo il compito di occuparsi della casa. Dopodiché è stato un po’ esplorato l’aspetto sociale di questa cosa, e cioè cosa voglia dire essere genitore, sia mamma che papà, e dover riuscire a districarsi all’interno di un’organizzazione lavorativa e familiare. In entrambi i film esiste, a mio parere, un’esagerazione sia da una parte che dall’altra. Se nel primo avevamo un padre che lavorava tantissimo e di fatto non c’era mai, qua abbiamo una mamma che dopo essersi dedicata così tanto ai figli decide di dedicarsi anima e corpo alla carriera lavorativa, trascurando il resto. E’ la storia della coperta troppo corta: se la tiri da una parte l’altra rimane scoperta. L’occasione per rivedere le cose, e capire che forse la sua scelta di andare a lavora a Stoccolma è troppo egoistica, le viene offerta dall’incontro col Babbo Natale.Essendoci di mezzo le festività natalizie, la mia speranza è quella di aver sciolto i nodi della questione in maniera non troppo moralistica.
Prima di essere vittima degli altri, Carlo lo è di se stesso. Come molti personaggi del tuo cinema, anche lui è affetto dalla cosiddetta sindrome di Peter Pan.
Mi sembra sia una condizione condivisa da tutti, perché con l’esistenza del libero arbitrio ognuno può scegliere se essere in un modo o nell’altro. La nostra vita dipende sempre da noi, a meno che non si sia condizionati da una malattia o problemi del genere.
In questo senso mi sembra esemplare e divertente il tormentone del figlio sonnambulo che ogni notte si alza e dà uno schiaffo al padre.
Intanto era divertente e poi mi sembra bene descrivere un disagio che appartiene innanzitutto all’inconscio del bambino e che però riesce a manifestare le conseguenze di chi, come Tito, è ancora piccolo, ma consapevole di cosa sta capitando nella sua famiglia. Quindi da una parte reagisce diventando quel personaggio lì, cioè un piccolo nazionalista; dall’altra scrive in gran segreto a Babbo Natale per chiedergli di far tornare la pace tra i suoi genitori. Dopodiché, lo sfogo dell’inconscio diventa una gag che appartiene alla commedia, se non che, non essendo un peto (ride, ndr), assume un peso diverso perché quello schiaffo lì – tolto il primo piazzato all’inizio del film – diventa sempre più significante di qualcosa, perché ci fa capire cosa prova Tito.
Se ci mettiamo il fatto che la scena è caratterizzata dalla componente onirica – perché Carlo torna alla realtà con lo schiaffo che lo risveglia dal sonno –e consideriamo la sequenza in cui tutta la famiglia scopre la fabbrica di Babbo Natale attraverso uno spioncino,tutto sembra ricondurre alla meraviglia e al fantastico propri della macchina del cinema dei fratelli Lumiere.
Era abbastanza voluto, perché comunque il film ha questo ingrediente fantastico che è molto simile al cinema, perché è davvero la creazione di un mondo che non esiste. In alcuni casi lo riproduce, ma, dal momento in cui si spengono le luci,lo spettatore è proiettato – almeno è quello che vorrei riuscire a fare – nel mondo dell’immaginazione e della creatività. E’ un universo parallelo che prende alcune cose dalla realtà, altre dalla fantasia, per cui mi fa piacere tu lo abbia notato.
Ti dirò di più. Per suggestioni, fantasia e creatività, la sequenza in cui davanti ai nostri occhi si manifesta la fabbrica di Babbo Natale a me ha ricordato addirittura Hugo Cabret di Martin Scorsese.
Sì, quello, come pure La Fabbrica del cioccolato di Tim Burton. Dentro ci sono cinquecentosessanta riproduzioni dell’elfo da me interpretato. In post produzione poi abbiamo creato anche l’immaginifico di quell’ambiente
La famiglia è il luogo tipico della commedia italiana e 10 giorni con Babbo Natale non fa eccezione. A cominciare da Happy Family, nei tuoi lavori essa torna spesso. In questo film però tu vi aggiungi delle connotazioni da commedia americana: mi riferisco alla presenza del viaggio e del camper, due elementi tipici che quel genere mette spesso a disposizione di famiglie sui generis, come quella di Carlo e Giulia. Se il camper si presta per sua struttura a surrogare le mura casalinghe, il movimento sottolinea il cambiamento in atto nell’esistenza dei protagonisti.
Beh, sai, uno dei metodi di scrittura più famosi è Il viaggio dell’eroe di Christoper Vogler. In esso si teorizza di un protagonista che finisce per essere coinvolto in un’avventura destinata a cambiarlo per sempre. Il criterio vuole anche che ci sia un mentore pronto a consigliarlo. Quindi c’è tutta una parte del film dedicata alle peripezie necessarie al personaggio per arrivare al cambiamento. Si tratta di uno schema applicabile a tutti i film. A me sembrava che la presenza del camper, nella sua funzione di personaggio,desse la possibilità di rendere archetipicoil viaggio della nostra famiglia, arrivando alla catarsi finale in un modo per casi dire mobile.In fondo si tratta di unapiccola casa che va incontro alle persone e fa succedere i fatti. Legato al Natale, mi sembrava potesse essere un simbolo interessante.
Ai tempi di Risi e Monicelli eravamo noi gli americani, mentre adesso le grandi produzioni, come pure le indipendenti, sono diventate parte della mia generazione – io ho 45 anni – e come tali forgiano un immaginario oramai globalizzato. Nel senso che io sono molto italiano ma mi sento cittadino del mondo, per cui dare un’aria da film indipendente americano a una commedia italianami divertiva. Tieni conto che per la maggior parte il film è girato quasi tutto con macchina a mano, cosa che non credo si faccia quasi mai in questo genere di film. A me piaceva, perché il suo modo volutamente sporco di raccontare aggiungeva un surplus di realismo che ben si equilibrava con la componente fantastica presente nella storia.
Pur in un quadro generale di divertimento, in 10 giorni con Babbo Natale i conflitti all’interno della famiglia, non solo danno vita a sentimenti reali, ma, senza citarlo in maniera esplicita, riflettono il clima di tensione che si respira oggi all’interno delle famiglie, messe alla prova dalle restrizioni della pandemia. Penso che tu sia riuscito a far corrispondere in qualche modo il clima della commedia a quello delle case in cui si guarda il tuo lungometraggio.
Era proprio una delle intenzioni. Chiaramente non ha a che fare con il lockdown sofferto dalle famiglie negli scorsi mesi, perché il film è stato scritto prima. Il tentativo era quello di trovare degli elementi nei quali tutti potessero riconoscersi. Una modalità relativa anche ai personaggi, perché di Tito, Bianca e Camilla gli spettatori più giovani condividono molte cose. La stesso vale per lo spettatore adulto nei confronti di Carlo e Giulia.
Voglio dire che avresti potuto raccontare la storia senza l’elemento conflittuale, ma avercelo messo rende il tuo film meno costruito e più sincero.
Ti ringrazio, e dico hai detto bene, perché il tentativo era quello di pescare l’iperrealismo nel quale vivono i personaggi, nella cui vita all’improvviso arriva un elemento fantastico e da lì in poi le due dimensioni vanno di pari passo.
Tra adulti e bambini, sono questi ultimi a farsi promotori dei grandi temi del nostro tempo, come il razzismo, l’intolleranza e la questione ambientale. Impegnati a risolvere i problemi quotidiani, i genitori sono distratti rispetto a queste problematiche.
Sono presi dalle loro cose. D’altronde io ho una figlia giovanissima e lei è lo specchio della società contemporanea. Nonostante io non sia così vecchio e mi debba comunque occupare della realtà per via del mio mestiere, mi piace che lei vada a manifestare per le questioni ambientali, come pure che abbia dentro di sè attenzioni come quelle di non sprecare l’acqua mentre ci si lava i denti. Tendenzialmente vedo in lei, come nei suoi coetanei, un rispetto degli altri ancora non invaso dall’egoismo che ti viene una volta cresciuto.
Esserti occupato di una figura come Babbo Natale ti mette sullo stesso piano di Nanni Moretti quando raccontò il Papa in Habemus Papam: in questi casi la posta in palio è cosi alta da renderne rischiosa la messa in scena. Tu, secondo me, hai scelto una rappresentazione efficace assegnandogli, da un lato, una funzione narrativa importante, quella che di fatto permette alla storia di articolarsi; dall’altro, ne fai la coscienza super partes, quella che permette al film di riflettere sugli accadimenti. D’altro canto è Babbo Natale a tirare fuori la morale del racconto e cioè che forse la via della felicità consiste nel ritornare ad avere uno sguardo bambino, ingenuo e buono alla vita.
Babbo Natale è il mentore di cui ti parlavo prima e lo è ancora di più sapendo lui il segreto della storia e cioè il fatto di rispondere con le sue azioni al desiderio espresso da Tito nella sua letterina. Il punto poi è che davvero Babbo Natale è tanta roba e quindi darlo in mano a Diego Abatantuono mi assicurava che avrebbe preso una piega piuttosto di un’altra. La sua smemoratezza non è mai una questione patologica, derivata per esempio da un principio di alzheimer e questo gli conferisce una rappresentatività che lo rende un po’ simile ai nostri nonni, smemorati e insieme magici.
All’inizio, Babbo Natale compare in una versione più prosaica, della quale non sappiamo l’autenticità o meno della sua identità. In seguito, la figura viene restituita alla consueta mitologia, descrivendo così un sottotesto che, dall’inizio alla fine, racconta la perdita del gusto e della meraviglia del Natale e insieme ilmodo per recuperarli.
E’ così. L’unica che lo crede tale è per l’appunto Bianca ed è un po’ lei che obbliga gli altri a fare altrettanto, per la paura di rompere l’incantesimo e dirgli che si tratta di un pazzo barbone. Alla fine, saranno però proprio i grandi a doversi ricredere,tornando un po’ bambini come succede a Natale. Al di là di essere una festa per i più giovani, il Natale è un momento in cui il cuore si apre un po’di più e questo è quello che succede un poco alla volta anche ai miei personaggi.
Io penso che Fabio De Luigi sia davvero un grande interprete della commedia. Tu affermi altrettanto, facendone il protagonista fisso dei tuoi film. Rispetto ad altri comici la sua è una maschera che lavora per sottrazione e all’insegna dell’understatement. Quando lo guardi, non ti accorgi neanche per un attimo che sta interpretando una parte.
Lo è assolutamente perché ha una gamma molto interessante, nel senso che Fabio riesce a fare molto ridere nel momento in cui la recitazione diventa molto drammatica. Inoltre migliora sempre di più, cosa che non succede spesso con gli attori. In qualche maniera è la mia proiezione, nel senso che le cose di cui scrivo le fa sempre lui in un continuo mescolamento tra realtà e finzione. Anche in questo film, per causa sua, si ritrova in situazioni che lo rendono impantanato e di questo noi ridiamo. Sa essere un personaggio fantozziano. E’ davvero una maschera nuova.
Come lo dirigi?
Tieni conto che io lo tiro dentro fin dalla scrittura. Non dico che scriva con me perché non è vero, ma lo tengo sempre aggiornata della direzione che prende la sceneggiatura. Avendo fatto cinque7sei film film insieme, tutto oramai funziona in maniera automatica. In tema di toni e recitazione sono quello che cerca di tenere la barra dritta, perché, nonostante lui conosca il film, sono io ad avere consapevolezza del senso generale di quello che stiamo facendo. Da qui la fiducia reciproca el’affidabilità a un metodo per me giusto nel fare commedie e cioè nel dare spazio sul set a un improvvisazione che riguarda anche la scrittura. Sarebbe assurdo prendere Fabio e Diego e dirgli di imparare le battute a memoria. Ci sono alcuni attori bravissimi a farlo, altri no.
E’ un po’ come disporre di un calciatore come Baggio e poi farlo giocare in difesa
Esatto. Poi è anche una questione di rispetto: Diego e Fabio hanno una grande capacità di trovare battute che è superiore alla mia, per cui è come se avessi Messi e Neymar in squadra e dicessi loro la maniera di tirare le punizioni.
Diego Abatantuono aveva il physique du role per interpretare Babbo Natale; però mi piacerebbe sapere perché proprio lui?
Con lui cercavo un’originalità che permettesse al personaggio di ritagliarsi un posto tra le centinaia di versioni che il cinema ha dato di Babbo Natale. Nella mia, penso si siano viste per la prima volta certe caratteristiche assolutamente terrene e reali che lui ha. In più Diego ha la capacità di far diventare pazza e surreale la narrazione di quel personaggio.
Tra l’altro tu lo dirigi chiedendogli di sottrarsi alla nota esuberanza. Voglio dire che non hai approfittato del personaggio che lui è nell’immaginario del pubblico italiano.
Anche con Diego abbiamo girato insieme molti film e siamo oramai diventati amici. Detto che a me lui famolto ridere, Diego è una persona e un attore assai intelligente, per cui sa sempre dove siamo e, conoscendomi, non arriva da me con proposte che potrebbero risultare strane. Magari sul set posso anche lasciare andare l’improvvisazione, ma poi a decidere sono io, per cui, anche attraverso il montaggio, mantengo la direzione che mi ero prefissato: lascio le perle e scarto ciò che funziona meno.
Il cinema che preferisci?
E’ raro che veda un film e non trovi dentro cose che mi piacciono. Dei contemporanei Michel Gondry e Wes Anderson sono i registi a cui mi sento più vicino, perché i loro film mi provocano sempre qualcosa. Tornando indietro, Billy Wilder, per il modo di scrivere e di raccontare la realtà dell’epoca, quelli che favorirono l’ingresso della sophisticated comedy a cui poi ha fatto seguito Woody Allen, un altro dei miei preferiti. Poi non posso dirti che Coppola,Scorsese e Nolan non siano per me dei riferimenti. Dopodiché, è un altro tipo di cinema: i primi tre minuti di Tenet costano comei miei otto film, perciò me li godo come spettatore. C’è il fatto che, crescendo, c’è una sorta di abbandono dei maestri, per abbracciare uno stile più personale. Inizi a sentire che hai delle cose da dire anche tu. Senza alcuna presunzione, è come se tutto questo studio precedente inizi a essere dentro di te e quindi cominci a comporre anche un po’ da solo.
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