Elia Suleiman, con il Il paradiso probabilmente rompe il silenzio durato dieci anni da Il tempo che ci rimane. Che rompa il silenzio è solo un modo di dire, perché in realtà decide ancora una volta di non parlare, come del resto ne Il tempo che ci rimane e nell’unica interruzione di questi ultimi dieci anni: l’episodio girato all’interno del film 7 days in Havana, in cui interpreta la parte di una persona (sempre se stesso) che non conosce la lingua e osserva la città cubana senza comprenderla, nell’attesa di essere ricevuto dall’ambasciata palestinese.
Un nuovo percorso
Qui, in It must be the heaven (titolo originale del film), Suleiman pronuncia una sola parola, Nazareth, e una frase minima, “Sono palestinese”, a sottolineare la sua appartenenza. Ma se prima il piccolo territorio della Palestina poteva essere emblema del mondo intero, ora il regista se ne va in giro alla ricerca di somiglianze o differenze, per poi tornare a casa, sembrerebbe senza più sorprese o grandi ripensamenti. E se dieci anni fa ha viaggiato nel tempo (dal ’48 al 2009) e nella vita familiare, ora si muove in grandi spazi (da Nazareth a Parigi, addirittura fino a New York) in una dimensione tutta privata. Non sono più i ricordi, quello del padre soprattutto, ad avviare il racconto, quasi come se quel percorso si fosse concluso, allora, e dovesse iniziarne un altro, del tutto nuovo, alla vigilia dei sessantanni.
Eccolo, con lo sguardo suo allucinato, che dai tavolini del caffè parigino osserva un via vai improbabile di donne sofisticate ed eleganti, mentre al suo arrivo nell’indecifrabile New York vede la gente indossare armi a tracolla come fossero borsette da passeggio. Un po’ sognato, un po’ vero, il mondo nuovo gli si impone con prepotenza e lui non cambia espressione; quando lo fa è qualcosa di quasi impercettibile. Ci sono violenze anche lì, nel luogo considerato più evoluto: inseguimenti della polizia, solitudini dei senza tetto, la gente ai Giardini del Lussemburgo che frega la sedia agli altri in modo vergognoso (una delle scene più divertenti). Non solo sgarberie, però, perché un passerotto gli entra in stanza a fargli compagnia e una ragazza con le ali sarà l’ultima immagine di leggerezza della sua permanenza a New York.
Ritorno al proprio giardino
È un mondo strano e stralunato quello che gli scorre davanti, nelle sequenze in cui il tempo sembra immobilizzarsi, e non è certo il migliore dei mondi possibili. Tornerà nel suo giardino, novello Candido sessantenne, e non importa se ad innaffiarlo sarà il vicino che continua a fare man bassa dei suoi limoni. Questo vicino giovane e un altro più anziano, del quale Soleiman ascolta attento i discorsi più strampalati, lo chiamano semplicemente Vicino; aboliti del tutto i nomi, come faceva il padre ne Il tempo che ci rimane con il confinante matto. Ma che tenerezza, quando il padre, lui solo, riusciva a farlo tornare in casa! E come è commovente ne Il paradiso probabilmente la scena in cui Elia Suleiman accompagna il suo di vicino, bizzarro, sotto la pioggia e sotto lo stesso ombrello! Tornerà nel suo giardino, dunque, a spiare il furto quotidiano dei limoni, immobile e silente, dal balcone di casa, nella ripetitività delle situazioni, stranianti e spassose, e delle inquadrature simmetricamente perfette. Anche i gesti, suoi e degli altri in scena, spesso si corrispondono, quasi giocasse allo specchio, o volesse imbastire una danza che sostituisca la parola.
Nuovo linguaggio del cinema coreano
“La poesia del silenzio è al cuore del linguaggio cinematografico”, sostiene Elia Suleiman e il suo felice approccio al cinema potrebbe confermarlo. Nel film precedente però la narrazione, se pure non sostenuta dai dialoghi, sembrava più solida. Storia personale e storia collettiva si dipanavano in una trama più direttamente comprensibile, nonostante i salti temporali e l’ostinato mutismo. Ora, che tutto è più affidato al simbolo, si rischia a tratti di vivere momenti non del tutto collegati, come si rincorressero senza armonizzarsi.
Ad ogni modo, il film è godibilissimo e, nonostante ci sia parso meno geniale dei precedenti, dobbiamo riconoscere al regista un grande merito. Come spiega Marcello Perucca in Cartoline contro l’occupazione, Elia Sulemian con Intervento divino, insieme a Hany Abu-Abbas con Paradise Now, è riuscito a dare visibilità al cinema palestinese, superando il vecchio problema della ricerca di una maggiore maturità linguistica, rispetto ai lavori dei cineasti palestinesi di prima del terzo millennio. Per cui, siamo contenti della menzione speciale al Festival di Cannes e gli auguriamo una buona distribuzione, oltre che un meritato successo nelle sale.