Banditi a Orgosolo, un film del 1961 diretto e prodotto da Vittorio De Seta. Con lo stesso titolo è stato pubblicato nel 1975 un libro dell’antropologo Franco Cagnetta, prima edizione monografica del saggio apparso sulla rivista Nuovi Argomenti nel 1954 con il titolo “Inchiesta su Orgosolo“. È il primo lungometraggio del regista siciliano. Presentato in concorso alla 22ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ha vinto il premio Migliore Opera Prima. Il film si svolge in Barbagia ed è interpretato da pastori sardi, attori non professionisti. Era stato preceduto da due documentari girati da De Seta negli anni 1950: Un giorno in Barbagia e Pastori ad Orgosolo. Durante alcuni soggiorni a Orgosolo, De Seta aveva avuto modo di conoscere gli abitanti di questo angolo della Barbagia, la vita solitaria dei pastori nel loro isolamento fra le rocce e i pendii del Supramonte, costretti dai bisogni del gregge a trascorrere lunghi periodi lontani dalla propria famiglia. Si era addentrato, per quanto un osservatore estraneo possa farlo, nella vita del paese, scoprendo le divisioni fra le classi sociali, ovvero fra chi si dedica alla pastorizia ed è costretto a pagare salati affitti per i pascoli e chi, possedendo grosse estensioni di terreno, gli affitti viceversa è solito riscuoterli. L’interesse di De Seta si è volto anche alla storia di chi, un tempo pastore, si trova coinvolto in avvenimenti da cui, per ignoranza, destino, impotenza e sfiducia nello stato e nelle sue leggi, si trova coinvolto in un piccolo fatto che, travolgendolo e ingrossandosi sempre più come una valanga, sceglie o si trova costretto a darsi alla macchia diventando un vero e proprio bandito. Con Michele Cossu, Peppeddu Cuccu, Vittorina Pisano, attori non professionisti.
Sinossi
Michele, un pastore di Orgosolo, è sospettato di abigeato e dell’uccisione di un carabiniere. È innocente ma non pensa proprio a costituirsi o a far emergere quanto realmente accaduto. Sceglie di darsi alla latitanza in compagnia del fratello minorenne, Giuseppe. Grazie all’aiuto che gli viene fornito dai compaesani Gonnario e Mintonia, riesce a nascondersi tra le montagne della Barbagia, ma, inseguito dai carabinieri, finisce col perdere tutto il suo gregge. Per la disperazione da cui è colto, nel tentativo di recuperare ciò che aveva perso, ruba il gregge ad un altro pastore, trasformandosi così da potenziale vittima di un’ingiustizia a bandito.
Il film è ispirato alle inchieste di Franco Cagnetta sulla vendetta barbaricina pubblicate su “Nuovi argomenti” sul finire degli anni Cinquanta. Vittorio De Seta aveva già al suo attivo bellissimi documentari in Ferraniacolor sulla Sicilia (Lu tempu di lu pisci spata, 1955, Contadini del mare, 1955, Surfarara, 1955, Pescherecci, 1958, e documentari sulla Sardegna (Pastori di Orgosolo e Un giorno in Barbagia, entrambi del 1958). Il regista affrontò il suo esile ed essenziale soggetto con l’aiuto della popolazione locale e dei suoi ‘attori’, rigorosamente presi dalla vita ed esperti di quanto dovevano recitare. Spostandosi sui luoghi, anche nei punti più impervi della montagna, con una troupe minima (sua moglie Vera Gherarducci, l’operatore Luciano Tovoli ma non per tutta la durata della lenta e faticosa lavorazione), De Seta ha realizzato il suo film secondo i canoni della ricostruzione documentaria e secondo il magistero di Robert Flaherty, pronto a cambiare sul momento una sceneggiatura tuttavia predisposta, per scarni dialoghi e per azioni primarie che danno al film un carattere di constatazione, allontanandolo da ogni tentazione di romanzo. Volti e sguardi, case e natura, uomini, alberi, animali, oggetti evidenziano la laconica psicologia degli interpreti radicandola nella concretezza dei fatti. Il film accoglie con massimi rispetto e attenzione le indicazioni degli interpreti, definendosi così come opera di gruppo oltre che di autore, ed è questo ad avergli conquistato nell’isola una statura di opera pienamente sarda, l’unico film girato da un regista venuto ‘dal continente’ a non essere stato considerato una piccola o grande aggressione ‘coloniale’ alla sardità. Ben oltre questi elementi, il suo valore è però nella dimensione tragica che la vicenda dei due fratelli assume momento per momento, in un processo che appare ineluttabile e fatale. È la logica del sottosviluppo che esso infine mostra e dimostra, senza prediche e senza messaggi, e rifiutando ogni ricatto spettacolare e sentimentale caro alla lezione neorealista non rosselliniana. È a Rossellini e alle sue opere migliori che, infatti, e più che a Flaherty, il film si apparenta; e all’opera di due coetanei che esordirono nel lungometraggio nello stesso anno di Banditi a Orgosolo, il 1961, e nello stesso festival veneziano: Ermanno Olmi con Il posto e Pier Paolo Pasolini con Accattone. Il neorealismo era morto, e il suo canone si era intristito nella commedia zavattiniana, nella denuncia gridata, nel populismo di maniera; ma rinasceva con questi autori in altri modi e in altre vesti, come lezione della realtà, come linguaggio della realtà. L’unico rimprovero accettabile, tra i molti pretestuosi che vennero mossi al film, fu di non aver tenuto conto del fatto che, mentre la condizione dei pastori era sempre la stessa, intorno il mondo cambiava e i primi effetti del boom avevano raggiunto anche l’isola, preparandosi a sconvolgerne l’antropologia come nel resto del paese. Ma è anche per questo che Banditi a Orgosolo, estraneo a ogni cronachismo e retorica, ha saputo attraversare tanti lunghi anni e durare come un classico in un’epoca prolificissima di grandi opere. Al pari di Accattone, è stato a lungo studiato da molti registi del Terzo Mondo come un film esemplare. (Goffredo Fofi)