Spettri di un passato presente: Chernobyl, la serie tv su Sky Atlantic
Chernobyl si rivela come un horror sociale che non lascia scampo: sangue e dolore davanti ai nostri occhi e sulla pelle innocente dei corpi portati lentamente al macello e un nemico che ha già colpito e colpirà ancora
“Qual è il prezzo delle bugie? Non serve più la verità, oggi: perché forse bastano le storie a riempire quel buco”, dice Valery Legasov, chimico sovietico chiamato dal Cremlino per gestire il disastro della centrale nucleare, e voce narrante che apre il primo episodio (di cinque) di Chernobyl, in onda su Sky Atlantic. Una figura drammatica e appassionata schiacciato tra la realtà del sistema politico che serve e i costi umani pagati: un uomo che, con le poche parole sussurrate dentro un registratore, riassume il senso tragico di un serial di altissima latitudine emotiva. Chernobylnon è solo il resoconto (pare fedele: tanto che la Russia pare si sia offesa particolarmente e voglia rispondere con una sua serie tv sull’argomento, arrivando a puntare il dito su agenti CIA infiltrat) del più grande disastro nucleare che il nostro mondo ricordi; ma anche e soprattutto un mosaico, dalla precisione entomologica, che restituisce il quadro della fallibilità umana inquadrata e metaforizzata nel sistema di menzogne e bugie dell’ex Unione Sovietica comunista.
Dopo l’introduzione di Legasov, il serial ideato da Craig Mazin va avanti come una cronaca, iniziando il suo racconto in medias res, a disastro appena avvenuto, e mettendo in campo ad uno ad uno le pedine di questo enorme meccanismo mortale, pedine inconsapevoli o meno condotte verso il disastro e la morte, schiacciate anche loro dal peso di responsabilità e bugie. L’atmosfera che si respira è proprio quella: una fotografia livida e satura restituisce il malsano senso di claustrofobia di un luogo diventato trappola mortale, ma lo spettatore ha una consapevolezza e un dolore in più, perché chi osserva sa già cosa è successo e cosa sta per succedere, non potendo far altro che vedere i protagonisti andare incontro al loro tragico destino. Un senso di impotenza e appunto claustrofobia realmente oppressivo che si trasforma in una visione particolarmente partecipata: in un serraglio di arroganza e colpevole menzogna, il punto di non ritorno emotivo è la sequenza, posta quasi a conclusione del primo episodio, in cui uomini, donne e bambini, ancora convinti che quello successo a Chernobyl sia solo un incendio, ballano e sorridono sotto una pioggia di cenere, in realtà mortale polvere radioattiva.
Chernobylsi rivela allora come un horror sociale che non lascia scampo: sangue e dolore davanti ai nostri occhi e sulla pelle innocente dei corpi portati lentamente al macello e un nemico che ha già colpito e colpirà ancora. Perché nonostante la ricostruzione si pone come quanto più fedele possibile e più accreditata su ciò che è realmente accaduto, fin dalle prime battuteChernobylmette in scena un’inquietante, insopprimibile senso di impotenza, ossessione e incombenza: quasi come se dietro ogni muro crollato, ogni tubo divelto, ogni nube tossica ci sia un’ombra pronta a ghermire le persone, un pericolo di cui ancora nessuno si è reso realmente conto e di cui non ha davvero capito la portata: un mostro, una bestia selvaggia e ferina, affamata di carne e dolore. È la morte al lavoro, che stende un velo su ogni respiro.
È questo, allora, il nucleo radioattivo della serie, il suo nocciolo esplosivo: lo sgomento impotente e paralizzante che provoca il terrore di guardare la morte al lavoro, che lentamente arrossa il viso, corrode la carne, sanguina le mani e la bocca. Un male invisibile ma incredibilmente reale, lacerante, che assale e violenta chiunque incontra, e noi stiamo lì a guardare mentre già lo sapevamo. Sceneggiatura e messa in scena si sovrappongono in un salto mortale continuo: Mazin – autore – e Johan Renck – regista – operano per un livello di sofisticazione visiva assoluta, in un dialogo fitto fitto tra parole e immagini mentre ciascuna sembra andare per conto proprio, salvo poi incontrarsi nel senso, nel finale, nel dolore. La realtà deformata dal racconto, nella più alta forma dell’audiovisivo: raccontare con l’oggetto filmico nascondendo altre narrazioni nella sovrastruttura, innestando piccoli ovuli di significato che si schiudono pian piano.
Inganno e potere, menzogne e arroganza: si, il nostro mondo viene raccontato da una centrale nucleare, ma immerso nel mistero impenetrabile della scienza e nell’insondabile immanenza dell’impotenza umana: perché, guardando Chernobyl, fa più paura un reattore che esplode o il viso chiuso e inerme di un burocrate che minimizza la devastazione? Chernobyl è uno spettro che aleggia e ghermisce: la presenza fantasmatica di un regime che non lascia scampo, lo spettro impalpabile di un disastro che non morirà mai.
Registrati per ricevere la nostra Newsletter con tutti gli aggiornamenti dall'industria del cinema e dell'audiovisivo.