Red Zone – 22 miglia di fuoco si apre con una scena d’azione dimostrativa, una parentesi studiata per schierare le linee narrative della storia, comunicare una direzione tematica e codificare il proprio tono espressivo in maniera netta e perentoria: abbondanza di punti di vista, resa visiva generosa di dettagli e gestione dell’azione dotata di occhio di riguardo per la violenza fine a se stessa, anziché che per le meccaniche di genere. È la prova istantanea dell’assenza di qualsiasi tipo di calma organizzativa e allo stesso tempo l’annuncio della presenza massiccia di una densità narrativa e visuale figlia della volontà di impressionare, spettacolarizzare in crescendo e sfondare i limiti dell’azione senza remore. Il risultato è il condizionamento della messa in scena con il peso delle ambizioni e con il gusto grossolano dell’eccesso: questa storia incentrata su una squadra speciale della CIA – incaricata di proteggere un informatore e trasportarlo fuori dal suo stato percorrendo 22 miglia disseminate di nemici – è infatti talmente sovraccarica di elementi negativi da risultare appena sufficiente nell’uso del suo linguaggio di riferimento (quello del combattimento) e difficilmente salvabile (anche nell’ottica delle regole del b-movie) nell’organizzazione dei contenuti, per colpa dell’eccedenza quantitativa e la pochezza qualitativa degli stessi.
C’è un divario netto tra ciò che quest’ultimo prodotto diretto da Peter Berg mira a essere e quanto effettivamente risulta essere, un disallineamento. Aspirante action thriller di impianto urbano, irrobustito da tensioni realiste e metafore politiche, e, invece, polveriera senza controllo e coerenza interna; messa in scena visiva tesa alle forme della transmedialità contemporanea e, invece, oggetto cinematografico con un’idea di riflessione audiovisiva involuta in una visione prodotta (attraverso soggettive e impianti tecnologici) per giustificare l’avvento multimediale dei vari ed eventuali sequel e spin-off. Difficile non notare come anche un potenziale guizzo concettuale – mostrare l’incapacità degli strumenti video di catturare la verità dei fatti – venga adombrato e storpiato da secondi fini commerciali quasi esplicitati: prove di una dissonanza percepita inoltre anche nella scrittura, per l’uso di una durezza e di un’antipatia incapaci di impressionare e formare empatie controverse e invece responsabili di momenti di ridicolo involontario.
È risibile infatti la mancanza di senso dell’autoironia, della convinta serietà di questa narrazione incancrenita nella propria confusione e nel proprio auto esaltato furore. Il film interpretato da Mark Wahlberg e John Malkovich ha obiettivi precisi – raccontare l’ambiguità dei mezzi scelti e il loro funzionamento per raggiungere un fine altrettanto discutibile – ma è incapace di seguirli con chiarezza e si sfoga in un disordine che parte dalla storia e intacca i contenuti. L’uso di scelte espressive giocate, come detto sopra, su un uso dell’azione a esclusivo consumo dell’azione, l’ingombrante arroganza ingiustificata dei toni, l’assenza di qualcosa da dire e la necessità di fingere di poter dire qualcosa di nuovo sul cinema d’azione, sul cinema di combattimento, sull’intrattenimento di genere, sono tutti motivi del fallimento di questo prodotto deciso a raccontare qualcosa di complesso senza esserne in grado, a fare fuoco su obbiettivi mobili senza aver disposto con attenzione il mirino e a ferire senza consapevolezza di come farlo con precisione. Da evitare.
Leonardo Strano