La sezione Art & Sound del Trieste Film Festival già da qualche anno è una fucina di elettrizzanti scoperte. L’intuito ci aveva perciò suggerito che il piatto forte della seconda giornata di festival sarebbe stato, in serata, un film che sin dal titolo prometteva faville: Soviet Hippies. Come considerarlo, un ossimoro? Si vuol veramente convincere il pubblico che la grigia e conformista Unione Sovietica degli anni ’70 abbia ospitato anche qualche sfrontata e vivace comunità di figli dei fiori? La risposta è arrivata da un documentario sorprendente nei contenuti, brioso ed eclettico nella forma, maturo nelle chiavi di lettura (anche politiche) ivi proposte e lievemente malinconico nel tracciare le conclusioni. Non ci sorprende, pertanto, che il premio di Sky per questa 29esima edizione del festival triestino (con annessa programmazione nel palinsesto di Sky Arte HD) sia andato proprio alla giovanissima autrice del film.
Ecco, dal sapido Q&A svoltosi al Teatro Miela sono emersi altri dati che rendono il lavoro di questa grintosa documentarista estone, Terje Toomistu, ancor più degno di nota. Va innanzitutto rimarcato il fatto che la regista, classe ’85, afferma d’aver iniziato le ricerche che hanno portato alla realizzazione del film circa otto anni fa: a un’età giovanissima, quindi, che non le ha impedito di imbarcarsi in un’impresa ritenuta invece folle e foriera di possibili delusioni da parecchia altra gente, attiva nel settore da più tempo di lei. Molti di loro ritenevano infatti che nella vecchia URSS comunità di hippie dedite all’amore libero e a ideali pacifisti non fossero mai esistite, anzi, per essere più espliciti, che la loro presenza non avrebbe mai potuto essere tollerata! Specie nel lungo periodo di “normalizzazione” correlato al grigiore brezneviano.
Se questa è la premessa, Soviet Hippies va ad inquadrarsi con naturalezza nel proficuo sentiero che diversi cineasti dell’area baltica, più o meno giovani, hanno cominciato a tracciare in questi anni, un sentiero fatto di continue riscoperte e di analisi sociologiche non conformi, inerenti alla rimozione del ricordo, al soffocamento di determinate sottoculture giovanili, a tutta quella storia sommersa della vita quotidiana nei paesi del blocco sovietico che, al suo riaffiorare, può assumere un valore non solo testimoniale ma anche catartico. Ed è bello che proprio certi film-makers, i quali hanno assistito al tramonto dell’era sovietica nella loro adolescenza o addirittura nell’infanzia, come nel caso di Terje, avvertano il desiderio di recuperare i pezzi mancanti del puzzle, mettendosi alla ricerca delle pieghe e dei frammenti più nascosti di una vicenda collettiva che ha ancora tanto da rivelare.
Nella fattispecie, Soviet Hippies è un prodotto girato con stile per quanto riguarda il ritratto del presente, caratterizzato dalla disgregazione e dai fenomeni di resilienza cui quel mondo è andato soggetto: le interviste ai “sopravvissuti” (termine che qui non vuole essere affatto eccessivo o sensazionalistico: se molti dei protagonisti di quella stagione turbolenta, stressati nel fisico e nella mente dalla repressione governativa e dai contraccolpi di un determinato stile di vita, sono scomparsi precocemente, alla loro perdita se ne sono aggiunte purtroppo altre durante la lavorazione del film) si alternano ad altre scene, proposte al ralenti o con altri accorgimenti registici tesi a valorizzare la cornice antropologica presa in esame, da cui si accresce ulteriormente la valenza mitopoietica di determinate incursioni nella (contro)cultura e nell’immaginario hippie. I frequenti stacchi tra presente e passato evidenziano le lacerazioni nell’animo dei protagonisti. Le coloratissime sequenze di animazione, ad essere franchi più quelle provenienti dal periodo in questione che quelle realizzate oggi, per l’occasione, arricchiscono la narrazione di note psichedeliche, al pari dell’ottima colonna sonora. Ma ciò che lascia realmente a bocca aperta è il lavoro compiuto con il materiale d’archivio, sia per l’oggettiva difficoltà nel reperirlo (basti pensare che i filmati fatti al tempo dagli stessi hippie erano tra le prime cose a essere requisite da poliziotti e da altri censori in uniforme, che oltre ad imporre a manganellate il punto di vista del regime costringevano spesso i fermati a tagliarsi barbe e capelli lunghi o li vessavano in altre maniere, persino più umilianti), sia per la varietà di situazioni descritte. Ciò che ne deriva è difatti il caleidoscopico racconto di una comunità solidale, resistente, vitale, desiderosa di scambiarsi contatti ed esperienze, per quanto guardata con sospetto e perseguitata in molteplici modi da un regime paranoico, incapace di rinnovarsi e adeguarsi ai tempi (l’ostracismo nei confronti dei Beatles e della musica rock in genere ne costituiva la riprova), che in simili attestati di libertà vedeva ormai una seria minaccia alla propria sopravvivenza.