Mamma, ho perso l’aereo è uno di quei film capaci di superare indenni l’inesorabile prova del tempo, rinnovando ad ogni visione la propria forza affettiva e continuando ad occupare un posto privilegiato nell’immaginario collettivo grazie alla sua aura di puro e crudo comfort movie adatto a tutte le età. I motivi di tale successo sono facilmente ricavabili nella rara intelligenza narrativa e magia della pellicola, i quali però rappresentano solo alcuni degli elementi che hanno saputo consacrare l’opera di Chris Colombus come il cult natalizio per eccellenza, forse il più importante della sua epoca.
C’era una volta
Scopriamoli dunque assieme, uno per uno:
Come primo punto, quasi impossibile non citare l’affascinante sodalizio tra Chris Columbus e John Williams, diramato in un connubio artistico che ha saputo dare forma a un’atmosfera sospesa, calda e immediatamente riconoscibile, da cui diversi anni dopo, undici per la precisione, la coppia artistica avrebbe posto le proprie basi lavorative nel contribuire alla nascita cinematografica di un certo Harry Potter ,trasponendo la medesima sensibilità della Chicago innevata anche lungo gli evocativi corridoi di Hogwarts. Se Columbus disegna un mondo credibile che si avvicina alla fiaba senza mai cedere del tutto alla fantasia, dall’altra Williams lo rende abitabile, ingegnando un paesaggio sonoro capace di non commentare semplicemente le immagini, ma anche di modellarle in tutto e per tutto: ogni brano racconta un’emozione, scandisce un tempo, accende un ricordo.
La struttura del film è permeata in tal senso da un piccolo meccanismo perfetto, con l’intera narrazione a rappresentare una lunga preparazione a quello che potrebbe tranquillamente definirsi un ‘regalo di Natale’ per lo spettatore: l’irresistibile azione slapstick che coinvolge Kevin e i due ladri, qui interpretati da un Joe Pesci e Daniel Stern estremamente a loro agio. Ciò che appare il fulcro dell’opera, in realtà, non è altro che l’esito di un percorso costruito con cura, in cui l’attesa del piacere non può che diventare essa stessa piacere. Surfando lungo tale scia dinamica, il risultato attraversa l’intero film, rendendo il terzo atto non solo divertente, ma anche emotivamente meritato.
Mamma ho perso l’aereo un classico intramontabile
Una poltrona per uno
Al centro della scena, a governare lo spazio filmico come pochi attori della sua età, Macaulay Culkin il cui muoversi attraverso la casa, rendendo ogni stanza un terreno da conquistare, trasforma l’architettura dell’abitazione in un’estensione del suo personaggio. È un bambino di undici anni che agisce come se ne avesse il doppio: un’ingenuità tecnica, certo, ma anche una scelta funzionale al tono favolistico. In tal senso la richiesta esplicitata a mò di patto da parte del film: accettare che Kevin non sia solo un bambino, ma anche (e soprattutto) un simbolo di autonomia, intraprendenza e desiderio di crescita, in modo da permettere alla morale dell’audiovisivo di emergere con dolcezza e spontaneità.
La comicità di Mamma, ho perso l’aereo si regge su un equilibrio sottilissimo tra costruzione e sorpresa, in cui Columbus dirige la propria creatura come una vera e propria orchestra. Ogni colpo, ogni caduta, ogni esitazione dei due ladri, si mostra perfettamente calibrata con un timing quasi musicale. Il montaggio utilizza la pausa come strumento narrativo, dilatando l’attesa e poi spezzandola con l’imprevisto, seguendo una grammatica comica che affonda le radici nei cartoni animati classici e confluisce in una comicità non solo mai gratuita ma anche nata invece da un crescendo di tensione e anticipazione destinata a trasformare lo spettatore prima in un complice, e poi in un compagno di gioco.
Cullare il proprio ambiente narrativo
La casa dei McCallister non rappresenta tra le logiche della storia una semplice impalcatura narrativa, ma un vero e proprio soggetto narrativo all’interno dell’ecosistema colombusiano. E’ un organismo vivo, un personaggio a sua volta, filmato come un territorio da esplorare, oltre che costruito in modo da dare una funzione simbolica ad ogni ambiente: il seminterrato come luogo del terrore, la cucina come spazio della quotidianità, il salone come palcoscenico della messinscena, il piano superiore come rifugio e punto di osservazione. Kevin cresce perché impara a padroneggiare lo spazio: la casa si trasforma in questa maniera da labirinto ostile a vero e proprio regno personale dove combattere contro i propri fantasmi.
Il tutto, di inevitabile pari passo con l’atmosfera natalizia, si distende nella pellicola non come semplice sfondo, bensì come vero e proprio stato emotivo capace di permeare l’intera struttura narrativa e creare un senso di rifugio e intimità: la neve, i colori caldi degli interni, le luci intermittenti, la musica di Williams che ondeggia tra il fiabesco e il solenne. È grazie a questa vibrazione emotiva che il film continua a essere, ancora oggi, un comfort movie tanto attuale quanto necessario.
Ritratto dell’America che fu
In quest’ottica, la pellicola assume le fattezze di un documento sociologico involontario, nel suo immortalare un’America suburbana fatta di benessere, distrazione e responsabilità. I McCallister rappresentano un modello familiare ad oggi quasi scomparso: numerosi, frenetici, affettuosi ma allo stesso tempo assorbiti da un ritmo che tende inevitabilmente a sfuggire al loro controllo. Il bambino degli anni ’90 più autonomo, meno sorvegliato, più libero – perfino fino agli estremi paradossali del film. È un’epoca che non c’è più, sostituita da una società più ansiosa e protettiva, in cui i mezzi di comunicazione, nati per connettere, sembrano oggi operare più per sottrazione che per reale scambio. In questo senso, il film esce dall’etichetta comica per diventare un vero e proprio archivio emotivo, un’istantanea di come eravamo e di come ci raccontavamo.
E vissero tutti felici e contenti
A fronte di un arsenale di tale caratura, l’eredità culturale del film è enorme: icone visive, meme, frasi celebri, reiterate repliche televisive, legittime ritualità annuali. Ma gli ultimi tentativi di riesumare il brand – così come suggeriscono fenomeni paralleli come il nuovo Notte prima degli esami, annunciato negli scorsi giorni– evidenziano una tendenza sempre più pigramente nostalgica del cinema contemporaneo. Il sequel recente di Home Alone sembra così più un esercizio di copy-paste emotivo che un vero e proprio esperimento artistico, a causa del suo privarsi consapevolmente della spontaneità che animava l’originale. È la dimostrazione di un’industria che guarda al passato non per reinterpretarlo, ma per sfruttarlo: una nostalgia senz’anima che svuota la memoria della sua autenticità.
In superficie, Mamma, ho perso l’aereo è una commedia. In profondità, è un ritratto urbano dell’America che fu, quella fatta di sobborghi impeccabili, famiglie sempre di corsa, Babbi Natale alcolizzati fuori dai supermercati e anziani solitari che diventano custodi di un passato misterioso. Il personaggio del vecchio Marley, con la sua ombra di tragedia e redenzione, incarna perfettamente questo spirito: è il cuore segreto del film, la parte più fragile e umana del racconto.
Dalle sceneggiature di Gremlins all’ecosistema trasposto ne I goonies, fino all’esplorazione del fragile tessuto domestico all’interno del soffice Mrs. Doubtfire, Colombus si conferma ancora oggi come uno dei narratori più coerenti del cinema popolare americano: è così che, lavorando sulla meraviglia del quotidiano, concentrandosi su un unico microcosmo narrativo e innalzando il proprio personaggio principale a vera e propria guida emotiva, Mamma, ho perso l’aereo è il punto di equilibrio perfetto della poetica dell’autore, un miscuglio di realismo e ironia che non scivola mai né nella forzatura né nell’ipocrisia.