Quando si guarda la prima stagione di Intervista col vampiro, oggi su Netflix, la prima cosa che colpisce è quanto la serie sia confezionata bene. Non nel senso ironico: proprio prodotta con cura, con un’eleganza visiva che molte serie live-action della piattaforma possono soltanto imitare. Scene ampie, fotografia lucida, costumi che oscillano tra decadenza e patinatura, set che sembrano usciti da una rivista di architettura gotica. È quel livello di produzione superiore che ormai riconosci subito: la stessa firma estetica che Netflix (assieme ad AMC, la casa madre) utilizza quando vuole lanciare un prodotto premium, uno di quelli che devono competere con le serie di punta, non con la massa seriale industriale.
Louis e Lestat: l’infinita crisi di coppia immortale
Anche gli attori fanno la loro parte: interpretazioni solide, una chimica palpabile tra Louis e Lestat (Sam Reid e Jacob Anderson), una credibilità emotiva che molti recensori hanno sottolineato. La regia, poi, gioca bene con i tempi narrativi del romanzo: dilata, approfondisce, ricompone, si concede quello che il film del ’94 non poteva permettersi. Dal punto di vista dell’adattamento, è innegabile che la serie sia molto più fedele a Anne Rice — più attenta alle sfumature, più onesta nel trattare l’eros, più coraggiosa nelle dinamiche affettive. Insomma, dal lato tecnico-artistico, Intervista col vampiro è una serie che sa quello che sta facendo, e lo fa con sicurezza. Ed è per questo che la critica, nella media, la tratta bene: la riconosce come un lavoro serio, elegante, riuscito.

Eppure, quando si parla di vampiri, la tecnica è solo una parte del discorso. L’altra parte — quella per noi fondamentale — riguarda cosa questa serie fa del mito, quale immaginario porta in scena, e con quale coraggio. È qui che entra in gioco il romanzo di Rice e, soprattutto, il nostro gusto.
E qui, per quanto la serie provi a onorare il materiale narrativo, un dubbio nasce inevitabile: quanto di quel vampiro resta realmente vivo, inquieto, antico?
È vero che la serie è più fedele del film. È vero che approfondisce, amplia, scava nella psicologia dei personaggi. Ma la modernizzazione — estetica e narrativa — addomestica inevitabilmente il mito. Il vampiro di Rice, sulla pagina, è ambiguo, sensuale, pericoloso; nella serie diventa più elegante, più tragico, più “comprensibile”. È un vampiro che pensa molto, che parla molto, che ama molto… e che morde poco. L’orrore si alleggerisce, la crudeltà si addolcisce, la bestialità scompare dietro l’ennesimo primo piano perfettamente illuminato. È un vampiro che vuole essere capito, non temuto.
Il confronto impietoso: Netflix vs Vampiri Veri
E noi, che siamo cresciuti con vampiri che non volevano essere capiti, ma disturbare — da Nosferatu a Solo gli amanti sopravvivono — questo lo sentiamo subito. Lì c’era il vampiro come creatura secolare, stanca, decaduta, minacciosa. Qui c’è il vampiro romantico, patinato, melodrammatico; non un abisso oscuro, ma un amore tossico con i canini.
La serie funziona, e funziona molto bene, se la guardiamo per ciò che è: un melodramma gotico di altissima qualità, costruito per piacere al pubblico globale. Ma se la guardiamo per ciò che vorremmo fosse — un racconto vampirico che sporca, che ferisce, che inquieta — allora il bilancio cambia. La produzione è splendida, sì. Gli attori sono eccellenti. La fedeltà alla scrittura di Rice è intelligente. E tuttavia l’essenza del vampiro, quella ferocia primordiale che i veri vampiri portano addosso come un odore, qui è così ripulita da diventare quasi un profumo.
In altre parole: Intervista col vampiro è una splendida serie… che non morde.