‘Bobò’, folle stella danzante nel teatro del mondo
Volto e corpo degli spettacoli di Pippo Delbono che firma questo documentario, Bobò, interprete campano liberato da un manicomio, ha infiammato ovunque le platee con un’arte drammatica inimitabile, che qui viene restituita oltre gli stereotipi della malattia e si fa microcosmo di umane affinità
Presentato nella sezione ufficiale Fuori Concorso al Locarno Film Festival 2025, in anteprima mondiale, Bobò di Pippo Delbono nella sua forma documentaristica di sensibilità ritrattistica e acutezza inventiva scolpisce e fa danzare la creatività di un outsider che sul palcoscenico elevò la propria alterità – fisica e intellettiva – a universalità di linguaggio, nella statura dell’arte e ancor più nei suoi siderali misteri di impalpabilità e vicinanza al pubblico.
Vincenzo Canavacciuolo (1936-2019), detto Bobò, ex internato nel manicomio di Aversa, è stato una forza primaria della famiglia teatrale di Pippo Delbono, personalità sorprendente nel panorama scenico internazionale, un artista eclettico e duttile che sapeva infondere con l’istintività di gesti e suoni una luce sulle ferite, nostre ancor prima che sue.
Con la voce e la presenza narrante dello stesso Delbono, che instaurò con il protagonista un longevo sodalizio professionale e d’amicizia, Bobò travalica le retoriche apologetiche post mortem al cospetto della malattia e della disabilità, cristallizzando l’essenza di colui che, illetterato, fu nominato Cavaliere delle Arti a Parigi, e cogliendo, nella folie à deux di talento, personaggi, rappresentazioni, le tracce della vita che sopravvive alla cupa sofferenza, nella trascendenza terrena dell’arte. Prodotto da Fabrique Entertainment, Luce Cinecittà, Inlusion Creative Hub, Vargo, con Rai Cinema, il film verrà distribuito in autunno nelle sale italiane, in concomitanza con la Giornata Mondiale della Salute Mentale (10 ottobre).
Ai margini del vita, dentro l’anima del palcoscenico
Il film racconta la storia straordinaria e reale di Bobò, un uomo sordomuto, analfabeta e microcefalo che ha vissuto per 46 anni nel manicomio di Aversa. La sua vita prende una svolta inaspettata nel 1995, quando Delbono lo incontra durante una visita nella struttura e ne rimane profondamente colpito. Da quell’incontro nasce un legame umano e artistico destinato a cambiare per sempre le loro vite. Attraverso questo incontro, Bobò diventa una figura centrale nel teatro e nel cinema di Delbono, rivelandosi un interprete sorprendente, capace di comunicare con forza e poesia anche senza parole. [sinossi ufficiale]
Non una biografia romanzata, ma il romanzo di una vita (anzi, quasi di due), con la presa emozionale tra l’incanto del genio e la delicatezza di un’ironia sovversiva, che Delbono intona nelle cadenze di una fiaba malinconica, ma mai disperata, suggellata dalla circolarità di un incipit nell’ex struttura psichiatrica e di un finale da epitaffio (con la morte sopraggiunta a Napoli, all’età di 82 anni), senza che il dolore della prigionia e della perdita intacchi la grazia della rinascita e del riscatto.
Incastonato al centro del racconto, un flashback che è attraversamento (più che cronachistica rievocazione) dell’unicità dell’attore-autore, tramite materiale composito: il monologo del regista, riprese originali, estratti di spettacoli e scene di vita quotidiana. Un bilanciamento tra memoria e poetica dell’umano, solo apparentemente freak e invece così vicino. Senza pietismo e facile condiscendenza si impone Bobò, con la sua alterità lunare, il carisma che inonda lo spazio, il trasformismo su toni e scenari, il non-mutismo intessuto di rumori ancestrali: colui che Le Monde ha definito
“l’incomparabile attore microcefalo e sordomuto, un piccolo re incerto”.
Dove il silenzio diventa presenza
Nel 1995 l’incontro epifanico del regista e attore con il paziente di Aversa (lì internato da quando aveva 16 anni), durante una visita per un laboratorio teatrale, schiude tutta la potenza inestricabile del linguaggio, non solo nell’alienante e leggiadra comunicabilità di gesti puri e istintivi, quasi sciamanici (Bobò non conosceva la lingua dei segni), ma anche nella comunanza dialogante e nelle empatiche coincidenze di due solitudini, due sofferenze, nella spirale della nera depressione.
Di fronte a questo piccolo sordomuto partenopeo c’è Pippo Delbono, grande autore di spettacolo della cultura italiana che ha attraversato il mondo, le sue incrinature e i suoi spiragli con l’arte drammatica e coreutica e con le regie cinematografiche, mosso dall’impegno civile e dalla sperimentazione, tra l’Oriente e Pina Bausch, dedito al conflitto israelo-palestinese, al terremoto di Belice, al rogo della ThyssenKrupp di Torino. Scelto anche come attore da Luca Guadagnino, Bernardo Bertolucci, Peter Greenaway, visse all’epoca il dramma personale dell’HIV, quando ancora erano assenti cure efficaci.
In questo modo Bobò, con la sua comicità surreale, con la vivacità di sguardo e di introspezione, regala al pubblico vertici di sensibilità e testimonia con autenticità tutta la bellezza possibile di un mondo misconosciuto.Un documentario sulla diversità più estrosa, struggente e vitale, sulla rinascita che si radica nel suo contrario, la cognizione dell’oscurità, in cui confluiscono buddismo e poesia brasiliana, confessione autobiografica e rivoluzione post-Basaglia, in un equilibrio di senso e di sentimento. Ricorrono poi sequenze memorabili, dall’addio sardonico di Bobò alla guardiana dell’ospedale alla domanda di un giornalista rivolta all’étoile dell’Opéra di Parigi, su cosa ci fosse nel panorama attuale della danza: “Nulla di nuovo, a parte Bobò”.