Dopo essere stata al centro di un piccolo caso i primi giorni del Festival – con tanto di decreto d’urgenza del tribunale di Venezia che ne proibiva, di fatto, la proiezione (ufficialmente per problemi di copywright) – il 6 settembre l’opera seconda della georigiana Rusudan Glurijdze, The Antique (Antivariaki), è finalmente approdata alle Giornate degli Autori.
Un ritardo che ha dato adito a polemiche e congetture visto il tema del film e il suo rapporto con un paese, la Russia, decisamente non conciliato. Ambientato nei giorni dell’espulsione forzata di migliaia di georgiani dal territorio russo, il film mette infatti al centro della sua vicenda uno scontro di civiltà che è anche un dramma generazionale, una storia di padri e figli e, insieme, una riflessione su cosa voglia dire essere (e sentirsi) immigrati. Ieri come oggi.
‘The Antique’: la trama
Il giovane georgiano Lado (Vladimir Daushvili) contrabbanda mobili antichi dal suo paese alla Russia assieme alla fidanzata Medea (Salome Demuria). Alla ragazza, però, quella vita va stretta e, all’insaputa del compagno, decide di acquistare per sé, a un prezzo vantaggiosissimo, un appartamento nel centro storico di San Pietroburgo. Unica clausola: la casa deve essere venduta assieme al suo anziano proprietario, lo scontroso ma erudito Vadim Vadimich (Sergey Dreiden). Nel frattempo, migliaia di georgiani, a causa delle tensioni tra i due paesi, cominciano a essere deportati illegalmente dal governo russo. Tra questi c’è anche Lado.

Dialoghi (im)possibili
Parla contemporaneamente due lingue differenti, The Antique di Rusudan Glurijdze (House of Others). Da una parte letteralmente, districandosi, cioè, tra il georgiano e il russo parlato dai suoi protagonisti; dall’altra idealmente, attraverso una struttura dove dimensione pubblica e privata, dramma individuale e collettivo paiono scontrarsi e confondersi tra loro.
Due anime ben distinte ma che, al pari delle identità dei suoi protagonisti, la regista georgiana tenta di tenere unite e far dialogare tra loro attraverso una storia esemplare, quasi una favola allegorica sulla Russia del nuovo millennio e su un Potere senza più memoria, morale o vergogna.
Un dramma raggelato
Ambientando la vicenda nella San Pietroburgo di inizio millennio, durante le espulsioni illegali di massa dei georgiani sotto la prima presidenza di Vladimir Putin, la regista attinge infatti al proprio vissuto personale per dar vita a un racconto dove Storia e storie individuali, spunti autobiografici ed eventi recenti troppo poco conosciuti prendono la forma di un dramma trattenuto. Una tragedia sospesa, fatta di appartamenti fatiscenti, vecchi mobili e fotografie sbiadite, che porta i segni di un passato che non si vuole o non si può più ricordare (la demenza di Vadim e la sua oscura storia famigliare), di una memoria a cui è inutile aggrapparsi per interpretare il presente.

L’ottusità del Potere
Perché nella Russia del nuovo millennio – pare dirci la regista attraverso uno sguardo indubbiamente parziale ma carico di sincera e sofferta empatia per i suoi protagonisti – il passato e la sua storia vengono svenduti per poco, materia buona giusto per mercatini dell’usato o per magazzini di mobili trafugati. Riflesso di una società brutale, incattivita e autoritaria che non sa più che farsene di cultura, rispetto reciproco e tolleranza.
Nelle vicissitudini di questi georgiani trapiantati in Russia, tra razzismo strisciante e le prepotenze di un Potere ottuso e chiuso in se stesso, si riflette così un dramma universale che pare riguardare non solo l’est Europa ma l’Occidente intero. Tasselli di un dialogo (i discorsi di Putin e quelli della seduta della Corte di Strasburgo che si accavallano lungo i titoli di coda) che pare ancora impossibile.