Presentato all’81° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, “Sette settimane” è il cortometraggio diretto dal regista Enrico Acciani, già autore di cortometraggi selezionati al Festival di Cannes (“Blasè”, “La figlia di Mazinga”) e del lungometraggio “Respirare stanca” (2020).
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Distribuito da Prem1ere film, con Nina Nicastri, nei panni della protagonista, Cecilia Napoli, Mariapia Autorino, Giglia Marra, Giorgia Remediani e Giorgio Consoli, il film è prodotto da Rocco Anelli per Intermezzo srl e Roberto Gambacorta per RioFilm srl in associazione con Liminal Space; le scene sono state girate in Puglia da una troupe completamente under 35, e ricrea i luoghi di una periferia laziale.
Il film affronta un tema costantemente sottoposto alle oscillazioni dell’opinione etica e moralista che cambia col tempo, all’e(in)voluzione storica, politica e culturale di interi Paesi e generazioni: l’interruzione di una gravidanza.
La protagonista è Luna, una ragazza che lavora in un supermercato; è incinta, impaurita ed abbandonata da chi avrebbe dovuto condividere con lei la croce del dubbio. Si sente annegare in quel costante flusso di pensieri che inondano la testa, dove ogni scelta nasce e muore nello stesso tempo, figlia od orfana di quei segnali che invaderanno una dimensione sinora ignota: il volto algido di una ginecologa, lo squillo di un telefono che non risponde, la carezza di una madre, il battito di un cuore nuovo, onde cardiache che oscillano su un monitor e che diventano una catena che collega due vite.
Consapevolezza
Il regista mostra come la consapevolezza di questa nuova condizione di sé possa esprimersi in modi diversi, con determinata naturalezza, o drammatica indecisione. Il racconto non cela alcun giudizio, assoluzione o soluzione, è la cruda rappresentazione dello stato emotivo e contestuale in cui ci si ritrova protagoniste; l’uso della camera a spalla, i primi piani poco evasisi, spazi ristretti e tonalità appiattite, esaltano la pesantezza di un movimento statico, nonostante si abbia solo voglia di gridare e scappare. Ogni giorno diventa un tassello di quel tempo che si accorcia e diventa implacabile, un ticchettio che riempie il cervello e le settimane, due settimane, sette settimane.
La paura non è generata dalla nuova condizione di sé, da un corpo che cambia, ma dal senso di colpa per aver trasgredito le leggi sociali che ti consentono di essere libera, di sbagliare, di non sentirsi pronta o di tentare e resistere, nonostante tutto. La bilancia della scelta prevede tanti pesi sull’altro piatto: il lavoro che manca, un compagno assente, una società respingente. L’aborto, infatti, spesso si allontana dal suo punto essenziale, ovvero decidere della propria vita in funzione di un’altra in arrivo, ma diventa frutto di retaggi ideologici indifferenti – in alcuni casi violenti – di fronte al pensiero individuale ed identitario di chi sta attraversando il dolore di decidere.
Scegliere di poter scegliere.