L’appuntamento con la scrittrice e sceneggiatrice cinematografica Lidia Ravera è nella sua bella casa di Trastevere. La incontriamo seduta sulle scale interne dell’appartamento intenta ad inviare un messaggio dal suo cellulare, sembra una bambina in questo quadro, ma é terribilmente seria. Premurosa, ospitale, dato il caldo estivo che in autunno inoltrato ancora insiste su Roma, ci offre repentinamente una fresca bevanda all’ananas. Il libro feticcio di Lidia Ravera, forse suo malgrado, resiste Porci con le ali, edito nel 1976 dalla Savelli editore, ed è il libro che segna anche il suo esordio nella letteratura. Ma Lidia Ravera mette subito le mani in avanti e dice, rispetto al suo Porci con le ali, “ … oggi sono un altra persona … “.
Ma Porci con le ali resiste forte ancora oggi, nella carriera della Ravera, nonostante tutto, nonostante cioè i trenta romanzi successivi scritti. Porci con le ali è un romanzo scritto a quattro mani, insieme al compianto Marco Lombardo Radice, pubblicato, nell’estate del 1976, in maniera quasi celata, firmato cioè solo con i nomi di battesimo dei personaggi, Rocco ed Antonia. Porci con le ali, rimane il testo che decisamente ha scavato in profondità la radice culturale di Lidia Ravera ed in fondo l’ha anche, pensiamo, caratterizzata alquanto, quasi etichettata nel suo percorso creativo, politico, sociale, culturale e professionale. Insomma nel primo periodo della edizione, l’estate del 1976, forse è esistita anche la volontà editoriale per fare di Porci con le ali un libro anche misterioso, in cui il suo autore restava anonimo, sulla scia forse di Berlinguer e il professore, scritto da Anonimo, e che proprio questa anonimità aiutava, in quel periodo, il successo commerciale.
Ma questa resistenza nell’anonimato, nel caso di Porci con le ali, non durò che pochi mesi. Il nome degli autori reali venne subito allo scoperto per via di un articolo di Giuliano Zincone uscito sul Corriere della Sera. Questo articolo, davvero oculato e scritto proprio con il cuore, insomma fece scoppiare un caso letterario e fece lievitare nelle vendite il libro della Ravera e di Marco Lombardo Radice. In breve tempo il successo fu clamoroso, Porci con le ali davvero si rivelò per le coscienze giovanili del periodo deputato quasi un dizionario esistenziale, anche un manuale di istruzioni.
L’esigenza, dunque, in quel lontano 1975, di scrivere un romanzo come Porci con le ali? Dice Lidia Ravera: “ … alla base di Porci con le ali c’era l’inchiesta sul sesso che mesi prima avevo condotto su Muzak. Con un questionario eravamo entrati nelle scuole di Roma per argomentare il comportamento sessuale degli studenti, per sondare un po’ anche a che punto era, del percorso, la lunga marcia della liberazione. Ma Porci con le ali, seppur romanzato non doveva essere che un pamphlet, solo un libello a circolazione interna, quasi un gran volantino. Era stato stampato in mille copie, mille copie da distribuire solamente a mille particolari interlocutori …”.
Al cospetto, ora, di Lidia Ravera, seduti sul divano di casa, l’immediato e personale ricordo corre ad una immagine: via Valenziani n° 5, Roma, sede appunto di Muzak, la nostra rivista del tempo, quella nata proprio per usare al meglio, e davvero ci riusciva, “ … la musica, la cultura e le altre cose …”, e dove Lidia Ravera era l’illuminata vicedirettore, una posizione questa che avevano fatto raggiungere su Lidia Ravera, da parte dei lettori, i termini carismatici, quasi, del mito vivente. Questo perché, più di ogni altro redattore (ma le assomigliava molto però il direttore Giaime Pintor) era lei capace a stilare articolo dopo articolo, già allora, obiettivi concreti sulla nostra idea di democrazia, anche sulle nostre resistite lotte giovanili al sistema. Ed in fondo a Muzak è anche cominciata la sua voglia di leggere e di scrivere il cinema, e per il cinema, di assolverlo o di condannarlo, insomma di viverlo attraverso le pagine dedicate alle schede critiche, anzi poetiche.
Il cinema dunque, entra nella vita di Lidia Ravera quando e come? “… per caso. Il successo inaspettato di Porci con le ali mi ha aperto davvero la strada. Tutti, in quel momento, volevano girare il film dal romanzo. Schiere di produttori, di registi, Mario Orfini, quello che poi ha realizzato la produzione me lo trovavo davanti ogni giorno, quasi a supplicare, inginocchiato, per avere i diritti del film. Ed in qualche maniera Orfini è stato accontentato dietro il vincolo però di decidere noi la scelta del regista, che nelle sue intenzioni, del produttore dico, voleva essere lo stesso Orfini. Anche Giaime Pintor che nel romanzo era entrato, insieme ad Annalisa Usai, firmando una post-fazione, si è dato molto da fare per realizzare il film dal romanzo. E mi sembra che Giaime abbia collaborato proprio alla sceneggiatura insieme a Paolo Serbandini … Per il regista la nostra scelta è caduta su un caro amico, Paolo Pietrangeli, che già aveva alle spalle un film documentario importante, Bianco e Nero … Ma la scelta non fu per niente felice perché Pietrangeli, in fase di realizzazione girò letteralmente un altra sceneggiatura. Girò solo le proprie convinzioni, adattate sui nuovi fermenti giovanili, che però non erano le nostre. E noi per non sottolineare quelle pretese, prese da lui in assoluta autonomia, abbiamo preso la decisione di ritirare le nostre firme dalla sceneggiatura …”
E il cinema comincia, in ogni caso, proprio dopo la versione cinematografica di Porci con le ali, a diventare parte integrante del patrimonio professionale di Lidia Ravera. Il suo secondo romanzo Ammazzare il tempo diventa anche lui, quasi immediatamente, un film. A dirigerlo sarà il regista e sceneggiatore Mimmo Rafele. Il film, come il romanzo, in qualche maniera schiaccia il pedale della autobiografia della scrittrice, e che forse in qualche maniera è una biografia che richiama e rimanda anche al mondo del regista Mimmo Rafele, quindi la risultanza del film, specchio di una generazione delusa, una generazione che ha fermamente creduto nelle rivolte del sessantotto, e che dieci anni dopo si ritrova ancora a rifiutare il mondo, ma questa volta senza, come dire, il grande supporto degli ideali di un tempo. Ammazzare il tempo era, a nostro avviso, un film che forse già cominciava a rispecchiare quella confusione che, negli anni ottanta, stava entrando a minare le coscienze del popolo più sensibile. Ma certamente sono le sceneggiature scritte per Giuseppe Bertolucci quelle che più appartengono al mondo cinematografico di Lidia Ravera, proprio al suo mondo poetico, quelle che le hanno dato, e le danno, semplicemente, la ragione assoluta e la coscienza concreta della professione: Oggetti smarriti, Amori in corso, Il dolce rumore della vita.
L’incontro con Giuseppe Bertolucci dunque, avviene come? Dice Lidia Ravera: “ … il caso ha voluto che Giuseppe era, in quei tardi anni settanta, il migliore amico del mio compagno, il regista Mimmo Rafele, con il quale avevo già sceneggiato il romanzo Ammazzare il tempo che poi Rafele ha diretto. Ci siamo conosciuti proprio così con Giuseppe, in una maniera del tutto tradizionale. Poi le nostre professioni,anzi le nostre sensibilità, mie e di Mimmo, in qualche maniera hanno coinciso subito ed attraverso il bel cinema di Giuseppe le abbiamo anche condivise … “.
Oggetti smarriti la seconda sceneggiatura scritta per il cinema da Lidia Ravera è in realtà come se fosse quella di esordio. Dice Lidia Ravera: “… si. In realtà si. Perché dietro quel copione non c’è il supporto di un mio libro, come invece c’era nel film precedente di Mimmo Rafele …. Giuseppe aveva un grande trasporto per la stazione di Milano, una visione da poeta, per cui ha voluto davvero dedicargli un film … Giuseppe si era seduto al tavolo della sceneggiatura avendo in mente solo l’immagine della stazione centrale di Milano … e il viso di una donna, Mariangela Melato … Che poi è stata la protagonista del film …”.
Certamente Lidia Ravera, nonostante le oltre cinquanta sceneggiature scritte per il cinema, resta soprattutto una scrittrice di romanzi. Il cinema, se proprio vogliamo applicarlo alla sua professione più pura, possiamo considerarlo semplicemente una conseguenza, anche una adorata conseguenza. Il binomio cinema-letteratura ha sempre generato un reddito intellettuale notevole alle potenzialitàdel cinema e creato quelle che sono state, ad un tempo, le stagioni migliori del cinema italiano: gli anni del neorealismo, gli anni della commedia all’italiana, gli anni del grande movimento del cinema di genere, dove gli sceneggiatori molto spesso, e a volte senza pretendere nemmeno l’accredito nei titoli, rispondevano a nomi di scrittori quali, e ne citiamo alcuni dei tanti: Corrado Alvaro, Vitaliano Brancati, Aldo De Benedetti, Giovanni Guareschi, Mario Soldati, Achille Campanile, Emilio Salgari, Ennio Flaiano, Diego Fabbri, Luigi Malerba, Giorgio Scerbanenco, Goffredo Parise, Piero Chiara, Giuseppe Berto, Alberto Moravia, Dacia Maraini, lo stesso Pier Paolo Pasolini, che prima di diventare regista ha collaborato a molte sceneggiature per registi quali Carlo Lizzani e Mauro Bolognini.
Queste collaborazioni, anche semplicemente parziali, spesso solo di scambi di idee e di battute, tra letteratura e cinema, è qualcosa che ai tempi attuali non accade. Perché? Dice Lidia Ravera: “Il cinema, per come è diventato oggi, propenso a rispondere solo a logiche di incassi, fa vedere lo scrittore come una mina vagante. Un film deve andare bene solo al botteghino, questo è l’obiettivo unico del cinema italiano. Un tempo si facevano film per parlare di coscienza nazionale, di educazione delle masse, si facevano film per ricercare un obiettivo alto, e nonostante tutto trovavi sempre la sicurezza dello spettacolo …”. Continua Lidia Ravera: “ …lo scrittore vero, non lo scrivente, non lo ingabbi dentro questa regola commerciale, lui se ne infischia completamente, lui segue la sua ricerca, la trasformazione del suo romanzo dalle parole alle immagini, non si pone certo l’obiettivo di trascinare dopo intere famiglie al cinema …”.
Dice ancora Lidia Ravera: “ … poi c’è un altro particolare, i produttori non leggono più romanzi. Tu vai lì con un romanzo e loro ti chiedono un peach. Ma nel peach non ci può stare l’atmosfera di un romanzo, non ci può stare quella che è la carne, quello che è il sangue dei personaggi, non ci può stare insomma il loro statuto di umani. Il peach può andare bene dopo, forse, ma per capire le prerogative dei vari personaggi devi leggere qualcosa più di un peach … La mia sensazione, oggi, è che io, nonostante sia anche piuttosto anziana, rispetto al cinema Italiano migliore, sono nata molto tardi … “.
Il produttore Mario Orfini, che tanto aveva creduto nella riduzione cinematografica di Porci con le ali, nel 1988 coinvolge Lidia Ravera nel progetto cinematografico di Luciano De Crescenzo, 32 Dicembre. Questo avviene dopo che Lidia Ravera aveva ormai maturato una esperienza quasi decennale con la scrittura cinematografica. Ma 32 Dicembre è un progetto importante, De Crescenzo è anche lui uno scrittore, la sua fama ha raggiunto ormai livelli internazionali, il suo personaggio chiave, il professor Gennaro Bellavista, che lo stesso De Crescenzo ha poi portato dalla letteratura al cinema, è rimasto carismatico anche come figura cinematografica. Dunque, a noi 32 Dicembre di Luciano De Crescenzo è piaciuto, lo abbiamo visto naturalmente con le dovute alchimie, necessarie in questi casi, come in tanti altri, per continuare ad amare il cinema italiano, nel decennio degli ottanta, e proprio per leggergli al meglio. La resa di 32 Dicembre in sala la abbiamo trovato semplicemente spiritosa, ma pare di capire osservando Lidia Ravera, dopo averle formulato la domanda sul film, che la grammatica e la dinamica del lavoro, seduti al tavolino in sede di sceneggiatura intendiamo, tra la Ravera e Luciano De Crescenzo, non lo ha reso particolarmente creativo. E’ un film a cui Lidia Ravera ha sicuramente dato Il suo supporto sui temi, in fondo a lei piuttosto legittimi, il tempo, qui raccontato quasi come un elemento del tutto soggettivo, perché davvero in 32 Dicembre tutti i personaggi vivono l’età che si sentono addosso, ma in definitiva, dell’argomento reso da De Crescenzo, la Ravera non è stata particolarmente toccata, e dunque, con uno sbattimento deciso di palpebre al nostro cospetto, pensiamo che Lidia Ravera ha davvero bocciato 32 Dicembre: le alchimie e le logistiche del rapporto creativo, anche quello più umano forse, con Luciano De Crescenzo, probabilmente, non le hanno fatto raggiungere le idonee caselle.
Ma Mario Orfini, cineasta feticcio per la Ravera, naturalmente collocato dall’altra parte della barricata culturale espressa con Giuseppe Bertolucci, riesce a coinvolgerla subito dopo in un altro progetto cinematografico, passato all’epoca, era il 1989, piuttosto in sordina nei circuiti cinematografici nazionali, ma che ha avuto, pare, esiti sensibili all’estero: Mamba, un film che, in qualche maniera, trasporta la Ravera anche nei circuiti del cinema di genere, in quel tipo di cinema in cui davvero si può mettere da parte la gloria dell’arte più pura. Mamba ad esempio ha l’aspetto di un thriller, per certi versi é anche anticipatore di certi congegni, quello del cinema degli effetti visivi e dei videogame e dove, proprio sul piano della scrittura poi, torna in primo piano, il ruolo della donna sempre in lotta con il mondo per conquistare il suo spazio nella vita.
Il tuo pensiero, dunque, visto la tua collaborazione in Mamba, sul cinema più prettamente di genere? Dice Lidia Ravera: “ … il cinema di genere deve essere ben scritto, con delle sceneggiature sottoposte a più di una revisione, a più di una scrittura, non può essere tirato via, come spesso è successo. Il cinema di genere, certamente più di un film cosiddetto “due camere e cucina” o “faccio cose, vedo gente”, ha bisogno di un lavoro certamente più accurato … “.
Ma il cinema di genere, insomma, a Lidia Ravera piace, é piaciuto, nei momenti in cui è stato fatto davvero?: “ … si, alcuni molto … “. Ed il tuo ultimo copione?: “ … sarà per il teatro. Il mio ultimo romanzo Il terzo tempo é stato ridotto per le scene, un lavoro da parte mia molto di sottrazione, guardando alla mole della mia storia…”.
Il terzo tempo è, come indica Lidia Ravera, quel segmento di età che parte dai sessanta anni e si sviluppa in media per altri trenta – trentacinque anni. Dice Lidia Ravera: “l’aspettativa di vita nel terzo tempo è lunga, bisogna quindi arredare questi spazi vuoti. Questo è quello che pensa Costanza, la protagonista del mio romanzo e questo proverà a realizzare anche sulle scene teatrali …”. Continua Lidia Ravera: “ … oggi bisogna soprattutto rispondere alle esigenze di un teatro, come la produzione che accoglierà Il terzo tempo, che non può sopportare impegni economici gravosi, per questo il lavoro di scrematura dal libro è stato necessario … Il punto oggi è sulla scelta del casting, so già che si tratterà di una grossa attrice per il ruolo della protagonista … Ma è un nome che, in questo momento però, non posso ancora svelare, poiché in corsa ve ne è più di una … “.
E oggi, Lidia Ravera?: “ oggi? … Oggi vengo da quasi cinque anni di politica attiva, all’assessorato alla cultura della Regione Lazio, ma non credo di avere imparato bene a parlare il suo linguaggio “.
Ma noi siamo pronti a rispondere che, ad esempio, Cori, in provincia di Latina, un paese da anni ormai senza un cinema e senza un teatro, solo pochissimi giorni fa è riuscito ad inaugurare il suo spazio teatrale. Noi pensiamo che dietro c’è certamente l’attività rigorosa dell’assessorato alla cultura della regione Lazio. Aveva detto infatti, Lidia Ravera, all’inizio del suo mandato di assessore alla cultura il 22 marzo 2013: “ … sarò felice se, alla fine dei miei cinque anni di mandato, sarò riuscita ad accendere una luce in una autorimessa, dove dei giovani poi proveranno a tirarsi addosso quattro poesie … “. E non vogliamo sapere molto di più, ma certamente capiamo, anche attraverso le righe dei discorsi affrontati, seduti sul divano, tra un sorso e l’altro della fresca bevanda all’ananas, che, pur non parlando lo stesso linguaggio “politico”, Lidia Ravera si è fatta ugualmente capire.