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28 Trieste Film Festival: Un altro me di Claudio Casazza

Già vincitore del Premio del Pubblico allo scorso Festival dei Popoli di Firenze, accolto anche al 28° Trieste Film Festival con interesse e calore, Un altro me trae spunto dalla già eccezionale possibilità di interagire con alcuni carcerati, inseriti in uno speciale gruppo di lavoro finalizzato alla riflessione sul crimine da loro commesso e a un eventuale reinserimento sociale, per venire poi a comporre una galleria di modelli comportamentali e reazioni emotive piuttosto varia, sia dal punto di vista dei detenuti che da quello dei loro carcerieri.

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Attivo sia sul fronte della critica che come documentarista, Claudio Casazza ci ha sorpreso in passato con l’acutezza del suo sguardo su realtà anche molto diverse tra loro. Tra i precedenti lavori ci era particolarmente piaciuto quello co-diretto con Luca Ferri, Habitat [Piavoli], per la capacità di dialogare con un autore schivo e appartato come Franco Piavoli, facendo trapelare nelle stesse immagini del documentario l’essenza della sua poetica. Con Un altro me l’indomito Claudio ha voluto affacciarsi in un ambiente che richiedeva capacità di relazionarsi, senso della misura e accortezze forse persino maggiori: parliamo del Carcere di Bollate e più in particolare di quei detenuti sottoposti a un regime particolare, in quanto condannati per reati di natura sessuale.

Già vincitore del Premio del Pubblico allo scorso Festival dei Popoli di Firenze, accolto anche al 28° Trieste Film Festival con partecipazione e interesse, Un altro me trae spunto dalla già eccezionale possibilità di interagire con alcuni carcerati, inseriti in uno speciale gruppo di lavoro finalizzato alla riflessione sul crimine da loro commesso e a un eventuale reinserimento sociale, per venire poi a comporre una galleria di modelli comportamentali e reazioni emotive piuttosto varia, sia dal punto di vista dei detenuti che da quello dei loro carcerieri.
Per mettere meglio a fuoco l’intera questione Claudio Casazza decide, molto saggiamente, di non mettere a fuoco. Nel senso che il fuori fuoco diventa, in un documentario delicato come questo, sia necessità etica che risorsa espressiva da esplorare con attenzione: ovvero, durante i vari colloqui e le assemblee con psicologi e altri membri dell’equipe, i volti dei detenuti non risultano mai messi a fuoco. Ciò è in primis un coscienzioso tributo alla dignità delle vittime di violenze ed abusi sessuali, in seconda battuta una concessione alla riservatezza che gli stessi autori dei crimini è opportuno mantengano. Ma strada facendo ci si rende conto che una scelta del genere può assumere anche altre implicazioni, dirottando lo sguardo dello spettatore verso certi dettagli ambientali o, attraverso qualche provvidenziale controcampo, sulle reazioni degli stessi operatori a racconti così spinti e morbosi. Tra disagio e desiderio di comprendere.

Con un nume tutelare come Frederick Wiseman sempre presente, con ogni evidenza, nella mente del regista, il film documenta una situazione esistenziale piuttosto estrema osservandola a fondo, ma senza cadere in alcuna delle possibili trappole che un soggetto simile poteva proporre: né una morbosità gratuita, né eccessiva complicità coi personaggi coinvolti, né censure perbeniste. Allo spettatore il compito di vagliare, non senza qualche imbarazzo, cosa ha portato quelle vite in una certa direzione e come quei programmi di recupero possano essere d’aiuto, se si vuole evitare che gli autori di determinate violenze fisiche e psicologiche ricadano, una volta fuori dal carcere, negli stessi esecrabili errori.

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