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Dopo Mezzanotte

Master Blaster al Ravenna Nightmare Festival

Master Blaster ci racconta il Ravenna Nightmare Festival, di cui Taxi Drivers quest’anno è stata media partner. Una panoramica ampia e colorita della manifestazione, che da anni appassiona tanti spettatori

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La camera delle bestemmie.

Tra uno starnuto e l’altro la colonna sonora sono i “Carmina Burana” (quelli veri, non quelli di Orff).

Dibattendomi tra i capogiri e la debolezza di una signora influenza che mi son beccato nelle fredde e nebbiose paludi romagnole, dovrei – il condizionale è d’obbligo – relazionarvi sulle novità 2016 del Ravenna Nightmare Festival.

Un appuntamento che magari non tutti ancora conoscono, ma che ha una sua più che consolidata e dignitosa tradizione, visto che quest’anno spegne quattordici candeline.

Potrei dire che sto pagando con la salute l’eroico sforzo dell’essermi sobbarcato un viaggio lungo e periglioso, con sommo sprezzo della nebbia e della piadina romagnola, solo per fedeltà all’etica e alla deontologia giornalistica che mi impongono sempre e comunque il dovere di informare.

Ma sarebbero le solite balle.

La verità è che questa trasferta l’avevo nel cuore da un bel po’ e non vedevo l’ora di farmela.

Sia perchè Ravenna è una città meravigliosa che racchiude nel giro di una o al massimo due passeggiate tutti i simboli di un’epoca, il tardo antico, che da circa dieci anni è il mio hobby maniacale ( lo so., ho passioni opinabili…), sia perché, per come ne ho sentito parlare, il festival è una ghiottissima tavola, imbandita di ricercatissime leccornie cinematografiche che gli amanti del genere difficilmente potranno vedere sui grandi schermi.

Diciamo subito che il principale artefice di suddetta curiosità, che mi ha spinto ad asfissiare per mesi il grande capo e la nostra povera addetta alle relazioni coi festival, affinché Taxidrivers mi inviasse, è il collega ed amico Stefano Coccia.

Va detto che la nostra Claudia ha fatto un lavoro encomiabile: dopo mesi di trattativa non solo siamo stati accreditati, ma Taxidrivers è addirittura media partner dell’evento.

Dico “siamo”, perché ad accompagnarmi in questa trasferta sarà proprio l’ottimo Stefano, rinnovando una tradizione di lavoro in coppia sugli eventi che dura fruttuosamente dai tempi dell’università.

Il viaggio in sè è stato orribile ed ha sancito definitivamente il mio divorzio dalle ferrovie. Chi mi conosce sa bene che ho un po’ di pregiudizi sul treno – che infatti prendo molto di rado e solo se costretto.

Dopo tanti anni ho voluto verificare i miei pregiudizi, con il risultato che meglio avrei fatto a tenerli per me e  continuare ad usare la macchina come sempre.

Dopo un’allucinante tratta Roma-Bologna, trascorsa sempre in piedi, per la modica cifra di ottanta euro e un cigolante sprint finale su una vaporiera locale che sembrava uscita da un film di John Ford, arrivo finalmente a Ravenna, ultima e gloriosa capitale dell’Impero Romano D’Occidente.

La tentazione è quella di stendermi a terra e baciare il suolo.

Sì, perché la città è veramente di una bellezza degna della sua fama, e oggettivamente, viste le condizioni in cui versano le ferrovie nel nostro paese, non pensavo che sarei mai arrivato a destinazione senza l’intercessione di un qualche potente sciamano.

Ad attendermi alla stazione c’è Stefano, il quale ovviamente, essendo dotato di una fibra più spartana della mia era fresco come una rosa.

Il tempo di posare i bagagli e farsi una doccia in albergo e subito ci immergiamo nelle proiezioni del primo giorno.

E iniziamo dunque la mia consueta relazione sui film visti per voi.

Anzi, prima di iniziare due considerazioni sono d’obbligo: in primis il festival ha un taglio molto più intellettuale (qualcuno potrebbe anche dire elitario) rispetto ad altri appuntamenti dedicati al cinema di genere, inoltre dall’impostazione generale traspare una volontà quasi didattica.

E tuttavia, visto il clima di provinciale pregiudizio con cui in Italia si bolla il cinema di genere  come “di serie B”, direi che ogni tanto è giusto tirar fuori una sana dose di spocchia intellettuale per rimettere in riga con un pò di latinorum , tutta la pletora di supponenti grazie ai quali oggi il cinema Italiano è una salma putrescente divorata dai Vanzina o dai Pieraccioni.

Infatti sia i film in concorso che la retrospettiva, sono sempre introdotti dai relativi curatori, cosicché, sia pure che in sala qualcuno, per qualche assurdo motivo non abbia mai visto “Velluto blu” di Lynch, avrà modo di essere introdotto alla visione in maniera esaustiva.

E proprio con la retrospettiva curata dall’ottima Mariangela Sansone io vado a incominciare la carrellata.

Si parte con “L’amico Americano” di Wim Wenders, una produzione franco/tedesca del 1977 .

Con un giovanissimo Bruno Ganz e un Dennis Hopper veramente magistrale (detto da uno che non lo ama affatto) si tratta della classica produzione Wendersiana, in cui nel dipanarsi di un dramma umano,  bisogna ascoltare soprattutto i silenzi.

Fa sempre uno strano effetto rivedere i colori originali dell’epoca; era da qualche tempo che non guardavo una produzione “nera” degli anni 70 e devo dire che il ritrovare quegli sprazzi di colori accesissimi che prepotentemente emergono e si muovono nel contesto del grigiore delle città è un’esperienza ipnotica che ti inchioda alle immagini.

Un film che fa male per l’assenza di empatia, la cui ricerca è però il tema dominante.

Chi si aspettasse una pellicola d’azione, con pugni e sparatorie resterebbe molto deluso. Intendiamoci, pugni e sparatorie ci sono, ma quasi rimangono in secondo piano, non riuscendo a penetrare le corazze dei vari psicodrammi interiori che si svolgono in parallelo all’azione.

Come tutte le produzioni di Wenders anche questo è un film che deve sedimentare e solo alla fine, quando tutto il superfluo è andato a fondo, lo spettatore potrà arrivare all’essenza dei contenuti.

Quasi da contraltare, “Chinatown” di Roman Polanski: una vera, piccola perla che curiosamente non avevo mai visto, nonostante abbia sempre considerato con molto interesse il lavoro del regista polacco.

Il film, pur rientrando negli archetipi narrativi classici del genere noir con qualche puntatina hard boiled (più di qualcuna a dire il vero), risulta spiazzante per l’uso degli attori.

Un Jack Nicholson superbamente fuori ruolo eppure azzeccatissimo, lontano anni luce dal caratterista disturbato di “Shining” o di “ Qualcuno volò sul nido del cuculo” a cui siamo abituati, sembra a suo agio con cappello e giacca panama, sigaretta spiegazzata e tutto l’armamentario del cliché Marlowiano del detective della Los Angeles anni 30.

Un duro dal cuore tenero, che però non rinuncia di tanto in tanto a far trasparire il ghigno che lo ha reso famoso. Piccole dosi che si perdono nei colori e nelle atmosfere di una metaricostruzione cinematografica che, come in un gioco di scatole cinesi, ricrea una Los Angeles del 1937 all’interno della ricostruzione di un classico film del genere anni 40.

La scelta dei film è particolare e Mariangela, già autrice e critica di successo, mi conferma la volontà quasi didattica che ha messo nel curare la sezione, con l’intento dichiarato di affermare al nero la dignità di genere a se stante, vivo e vitale, con una sua evoluzione, e non un momento cinematografico ben inquadrato in un segmento temporale ormai lontano.

Saltiamo di palo in frasca al presente con i film in concorso.

Particolare peso in quest’edizione hanno avuto i nuovi lavori Russi o dell’area ex-sovietica, anche se onestamente va detto che ben pochi dei lavori slavi presenti possono essere definiti propriamente degli horror.

L’impressione mi viene confermata da Franco Calandrini in persona, direttore artistico del festival, in quanto secondo lui l’horror puro nella fare attuale vive un momento di stanchezza produttiva nei contenuti, ma al contempo contamina moltissimo altri generi, pertanto la curiosità del festival, almeno per quest’anno, era incentrata sul vedere come si sviluppano gli innesti dell’horror su altri generi.

Un esperimento per molti versi interessantissimo, ma difficile da seguire.

Parto dalla scelta che meno mi ha convinto, così mi levo il dente e non se ne parla più. Premetto che la mia non sarà un stroncatura a “tabula rasa”  come quelle a cui i miei (pochissimi) lettori sono abituati, quando mi trovo davanti ad un lavoro che non mi piace, d’altronde Ravenna è una città di equilibri.

Tradizione classica e medio evo, mondo romano e universo barbarico, misticismo spirituale e  pieno, passionale amore per la vita, l’arte e i piaceri materiali, la dimensione di una città capitale e quella del placido centro di provincia, tutto convive in un momento irripetibile di perfetto equilibrio, quindi anche io cercherò per una volta di essere equilibrato nei miei giudizi. Si tratta di “Snow” produzione bulgaro/ucraina di Ventsislav Vasilev.

Cominciamo con il dire che non è un film brutto, fatto male, o sciatto, anzi. Gli riconosco un bel montaggio, una buona fotografia, una buona dose di verve agrodolce nei testi che unita ad una discreta capacità attoriale degli interpreti ne farebbe certamente un buon lavoro, degno di un premio o almeno di qualche menzione… se fosse presentato ad un festival di cinema realista, drammatico o di un qualche altro indirizzo.

Con tutta la buona volontà, e la mente aperta alle contaminazioni, qui di horror o di fantastico non se ne trova traccia: infatti, le vicende grottesche e paradossali di un gruppo di sgangherati balordi che decidono di rapinare uno squallido ufficio postale bulgaro per poi rapinarsi a vicenda, le tematiche del degrado sociale e quelle umane del perdono, dovrebbero accostarsi molto più ad  un Pasolini che non ad un Argento.

Ad un primo acchitto si potrebbero trarre le stesse conclusioni anche per “Tragedy at Rodgers Bay” del regista russo Phillip  Abryutin.

Di per se la storia è un classico giallo tra i ghiacci, dove un ispettore del nuovo governo rivoluzionario sovietico è incaricato di far luce su alcuni omicidi e degli abusi in una comunità di scienziati e nativi, isolata tra i ghiacci dell’estremo Nord Artico.

Qui gli innesti del cinema horror classico sulle nuove proposte sono evidenti negli smaccati richiami dell’alienante deserto di ghiaccio, dei bianchi ossessivi e nella claustrofobica solitudine interiore che erano i leitmotiv nell’indimenticabile Cosa  di Carpenter.

Inoltre, va detto che comincia a diventare evidente la differenza con le prime produzioni russe degli anni 90, trattando l’esperienza sovietica con più serenità; difatti non c’è più solo un’ ottusa condanna del passato, ma un’analisi più scevra di pregiudizi e più attenta  a considerare, accanto alle innegabili ombre di quel periodo, anche le luci.

E finalmente arriviamo a “Paranormal drive” di un altro russo, Oleg Asadulin.

Il film di per se non è nulla di originale: si compone di una linea principale che è sostanzialmente una rivisitazione  sul tema dell’automobile maledetta ( evidente il richiamo a “Christine la macchina infernale”, sembra che Carpenter la faccia da padrone come fonte di ispirazione per i russi) nella quale, come in un collage, il regista inserisce chiare citazioni di altri grandi classici, da “Duel” a “La macchina nera”, non dimenticando di ammiccare a “The ring”.

Potrebbe sembrare una paraculata, ma il cinema è l’arte della affabulazione e le fiabe, si sa, sono rielaborate adattandole a latitudine e tempi fin dalla preistoria.

Il film in questo caso scorre bene, non annoia e diverte lo spettatore con una resa credibie e dinamica, unite da un sapiente tocco di gusto personale dell’autore, quindi ben venga anche la paraculata.

Spostandoci più ad occidente, una coppia di fratelli britannici, i Blaine, ci propongono “Nina forever”, una divertente commedia nera sentimentale, con qualche puntatina gore. La storia tratta di un complesso triangolo amoroso tra Holly, Rob e il cadavere della fidanzata di quest’ultimo, Nina.

Un film non ascrivibile a nessuna categoria, poliedrico e mutevole, con un’estetica narrativa che spazia dalla sit-com fino a momenti splatter conditi con una straripante dose di humor britannico che serve ad addolcire un pochino (ma non troppo) la vera tematica del film, che, come ci racconta uno dei fratelli Blaine, presente in sala, è proprio la separazione.

Sia questa dovuta alla fine di un amore o alla fine di una vita, perdere una persona cara è un trauma che si porta dietro gli strascichi delle questioni irrisolte.

Un vortice nel quale districarsi è difficile ma necessario come momento di crescita per non rimanere incastrati in un passaggio a vuoto della vita, inchiodando in un limbo senza prospettive se stessi e coloro che ci stanno intorno.

Abbiamo detto e ribadito che il Ravenna Nightmare si distingue dagli altri festival di genere per la sua impostazione colta, ma, per quanto intellettuale, non c’è festival horror che si rispetti la cui scaletta non preveda un posticino, anche piccolo piccolo, per almeno un film della serie campeggiatori-massacrati-o-giù-di-li ( per quanto più breve, non userò l’anglismo slasher) e ,anche se con una fotografia patinata e qualche variazione sul tema, “Villmark asylum” del norvegese  Pal Oie (mi spiace, so che è scritto male, ma non ho i caratteri per il Norvegese sulla tastiera) rientra a pieno titolo nel filone.

Vero che al posto dei campeggiatori vi è una equipe di decontaminatori, impegnati nella rilevazione di sostanze tossiche all’interno di uno sperduto nosocomio destinato alla demolizione, ma per il resto i punti di forza del genere ci sono tutti, dalle biondone di turno ai maschioni un po’ fessi, tutti destinati ad essere affettati, trinciati, smembrati uno ad uno dalle oscure presenze che infestano il luogo.

In più rispetto alla norma abbiamo il bonus vecchio-criminale-nazista che dà sempre quel tocco esotico in più.

Probabilmente Villmark asylum non troverà il suo posto d’onore nel Teo Mora, ma va detto che per passare una bella serata di Halloween con gli amici o in dolce compagnia è più che indicato, non impegna sui grandi misteri della vita, ma diverte e scorre bene.

Sui grandi quesiti esistenziali del tipo “chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo” si interroga invece Andreas Thomas Jensen nel suo “Men & chicken”. Che ci fosse del marcio in Danimarca lo sapevamo fin dai tempi di Shakespeare, ma che la situazione in quel paese fosse così incasinata da produrre un film del genere, nessuno lo poteva immaginare.

La metafisica del pollo è il tratto caratteristico di questa hellzapoppin scandinava in cui gli uomini, complici le solite velleità prosopopeiche dello scienziato pazzo di turno, discendono non dalle scimmie ma dai polli.

Un omaggio tra le righe alla povera Mary Shelly che non so come avrebbe preso quest’interpretazione del suo nuovo prometeo.

Personalmente ho trovato esilarante vedere la scena popolata di volatili dotati di piccoli piedini umani e piumaggio pezzato come quello delle vacche o storie d’amore tra umani e tori che manco Pasifae se ne sarebbe sognate di simili….Men & chicken è quello che sarebbe successo se avessero chiesto a Jacovitti di disegnare una storia liberamente ispirata all’isola del dottor Moreau.

Avvicinandosi alla fine di questa carrellata sui lungometraggi è arrivato il momento di parlare del vincitore di questo festival: lo Statunitense Simon Rumley, con il suo “Jhonny Frank Garret’s last word” può vantarsi a ben donde di portare a casa un premio più che sentito, visto che la giuria del festival quest’anno era composta dal pubblico stesso che alla fine di ogni proiezione depositava all’interno dell’urna una scheda con il proprio voto.

Non stupisce che questa pellicola sia arrivata al cuore degli spettatori, visto che sotto la patina di revenge movie dalla confezione Hollywoodiana, emergono prepotentemente le tematiche di denuncia sul divario causato da una forbice sociale sempre più aperta negli Stati Uniti, su un Sogno Americano alla portata solo delle classi agiate mentre la cosiddetta giustizia si accanisce sempre sui più deboli.

Un canto contro la pena di morte che, oltre a spaventare, commuove e fa riflettere, condito da una buona sceneggiatura, un montaggio dinamico e un uso discreto ma appropriato di effetti speciali.

La prova che un buon lavoro di intrattenimento non deve essere necessariamente banale o noioso.

Inoltre il film fa una splendida combo con il cortometraggio proiettato immediatamente prima, “The disappearence of Willie Bingham”  di Matthew Richards, che affronta con la medesima visione critica il problema della pena di morte, allargando il discorso più in generale alle istituzioni totalizzanti, quali le carceri, la medicalizzazione del disagio e il controllo dei corpi.

Anche i corti, va detto, hanno avuto una ben organizzata sezione e alcuni dei lavori erano molto validi, tuttavia per ovvi motivi di spazio (che ho ampiamente sforato per la gioia del nostro caporedattore), mi limiterò a citare lo spassoso “Endgame” di Phil Mullay che oltre a divertirmi nel  ricordarmi certe soluzioni della celebre animazione Italiana di Osvaldo Cavandoli, mette in scena la parodia di certi atteggiamenti machisti in voga tra gruppi di minus habens che trovano estremamente rilassante, dismessi gli abiti da ufficio, indossare una mimetica per giocare alla guerra.

Dunque siamo arrivati alla fine.

Come penso si sia capito dalla mole quasi bibilca di questo live report, il festival è stato più che gradito e certamente l’anno prossimo farò di tutto per esserci nuovamente.

Ovviamente automunito, sia per risparmiarmi gli orrori non di celluloide, ma ben più reali delle nostre ferrovie, sia per una questione logistica che pur esulando dal festival mi ha lasciato basito.

Potrete immaginare il mio sgomento quando ho scoperto che a Ravenna dopo le 20 non esiste un servizio di autobus. Dopo lo shock iniziale non ho potuto fare a meno di immaginare  nella mia testa  il povero Flavio Ezio, pressato dagli Unni, chiedere rinforzi e sentirsi rispondere da Valentiniano: “ahò…. so le 20.30… nun ce stanno i bus pe mannatteli….. famo domani……”

Questo spiegherebbe, tra le altre cose, perché è caduto l’impero Romano d’Occidente…

Colonna sonora: Nightrain dei Guns’n Roses.

Master Blaster

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