Purtroppo ci si è persi l’occasione di vedere presentato personalmente il suo ultimo lavoro, da parte di quello che è stato definito senza riserve e con orgoglio, durante la lunga presentazione prima della proiezione alla Festa del Cinema di Roma dall’ambasciatore polacco in Italia, il più grande regista polacco, Andrzej Wajda, deceduto soltanto pochi giorni fa, dopo aver fatto in tempo a presentarlo a Toronto.
Qualcuno ha parlato di film testamento, ma parrebbe che il regista, alla veneranda età di 90 anni, non avesse alcuna intenzione di fermarsi e, anzi, avesse addirittura dei progetti futuri per un nuovo film.
Sullo sfondo del periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale (il racconto si svolge tra il 1948 e il 1952 nella Polonia stalinista), Wajda riesce a fondere un tema intimo e personale con quello più esteso e generale, politico-sociale, della storia del suo Paese, ponendo l’accento su come la rigidità politica del tempo influisse sull’individuo e sulla sua essenza. E quale migliore trait d’union se non l’arte, quale mezzo di profondo contatto con se stessi e di espressione di individualità e sentire?
Wajda utilizza per esprimere il suo concetto, facendolo incontrare al pubblico, la figura del pittore suo connazionale Wladislaw Strzeminski, interpretato magistralmente con un’eleganza fuori dal comune da Boguslaw Linda, che incarna perfettamente il vigore e la sofferenza di una creatività, tarpata, condizionata e soffocata dai dettami politici di regime, sino alla persecuzione. La sua storia, la sua Teoria della Visione, il concetto di immagine residua, sono messe sapientemente a servizio della difesa del valore dell’unicità dell’individuo, esprimendo perfettamente il concetto di necessità assoluta per ogni uomo di rimanere centrato su un fulcro personale, aderente a una mente propria e unica. Secondo Strzeminski si può ed è fondamentale conferire una forma al proprio estro, pur che sia la sua forma, solo quella, quella che viene da uno sguardo unico e pregno di un solo pensiero, sentimento, vissuto, senza che questo venga contaminato o direzionato da agenti e pressioni esterne di alcun tipo. Lui stesso evitava con i suoi studenti, che lo adoravano, di dare consigli o di essere direttivo, rimandando continuamente al loro istinto e alla loro personalità, nel momento in cui erano loro a chiederglieli.
Strzeminski è stato una figura emblematica nel panorama artistico del ‘900 polacco, molto in vista e noto per aver lavorato con artisti del calibro di Chagall, aspetto che esula dal suo valore personale e che più volte viene citato durante il film quale indice di prestigio puntato sull’apparenza a discapito del valore individuale. Non è escluso che Wajda, grande amante dell’arte figurata e personalità altrettanto riconosciuta nel suo paese per un’altra, non meno importante forma d’arte, possa esservisi identificato e forse non è un caso che proprio nel suo ultimo film egli si occupi degli ultimi anni della vita dell’artista. Finché non considerato scomodo in quanto disubbidiente alle richieste di aderenza totale e di omologazione della sua arte all’ideologia di regime, il pittore è stato una personalità di spicco nel paese, ultra riconosciuta, tanto che gli è stata dedicata un’intera sala di un museo d’arte moderna.
Ed è proprio la dignità con la quale egli affronta e sostiene le angherie e i soprusi sempre maggiori, volti all’umiliazione e alla mortificazione dell’uomo nell’intento di piegarlo e sottometterlo, che splende di una luce intensa e calda che, in contrasto con il freddo della Polonia, illumina tutto il film. Nonostante venga privato, non solo dei riconoscimenti, ma a poco a poco di ogni elemento gli conferisca consistenza di essere umano appartenente alla società, il lavoro, il cibo, i suoi colori, l’appartenenza all’associazione degli artisti, le tessere alimentari, qualsiasi cosa, egli rimane in piedi fino allo stremo, sino a che il suo unico arto lo regge, emblema di un’ individualità che difende strenuamente a costo della propria vita, dei propri sentimenti, anche dell’incolumità di chi gli è caro, pur di salvaguardare il principio assoluto di non rinunciarvi mai, in nome della propria coscienza e di quanto quello che vi è dentro possa regalare a se stesso e al mondo.
“In arte come nell’amore si può dare solo quello di cui si dispone”.
Vi sono alcune scene di potenza drammatica straordinaria, come il momento in cui a Strzeminski viene comunicata dalla figlia la morte della moglie, verso la quale sino a quel momento aveva mostrato un atteggiamento apparentemente freddo, mentre in quei pochi minuti, in due frasi e nel semplice muoversi dei suoi occhi straordinariamente profondi ed espressivi, riusciamo a vedere tutto il peso e il valore di una vita insieme e del dolore della perdita, senza avere accesso neanche a una sola immagine della coppia. E vi sono tutta una serie di elementi che non vengono mostrati, scelta particolarmente riuscita, come appunto la moglie del pittore che non compare mai, se non sotto un lenzuolo che la rende invisibile dopo la sua morte, così come non viene mai svelato con quali modalità Strzeminski ha perso un braccio e una gamba. Molto bella anche la scena della sua caduta, rappresenta meravigliosamente in mezzo a un gruppo di manichini inanimati, che, a differenza del pittore sfinito, restano in piedi.
E così, in modo poetico e raffinato, si assiste all’affermazione di ciò che è più prezioso nella vita di un uomo, la sua coscienza individuale, quella che è a stretto contatto con la sua anima, dalla quale attinge tutta la sua energia, la determinazione, la forza. Una forza che purtroppo, per quanto grande e caparbia, l’ottusità, il cieco potere e l’assenza di consapevolezza, sono in grado di colpire e affossare sino a provocarne l’esaurimento, persino fisico, oltre che morale, fino alla morte.
Non un film meramente politico come ci si poteva aspettare, mai pesante o prolisso, ma delicato e intenso, come quel rosso di un cappotto consunto che viene oscurato, o il blu dei fiori di un lutto che possono mantenere il loro colore soltanto su una tomba.
Davvero bellissimo questo ultimo sforzo di Andrzej Wajda, che, a 90 anni e poco prima della sua morte, ci ha regalato un esempio di estrema presenza e lucidità ancora incredibilmente vitale e piena di slancio emotivo.
Roberta Girau