Parliamo di Adriano Aprà, un mito, certamente, per i cinefili “netti e radicali” dei primi anni settanta.
Sotto il segno del suo cinema austero, rigoroso, asciutto, ma soprattutto sotto il segno della sua teoria più radicale, della sua lezione più rigorosa, si è formata più di una generazione di cineasti, di studiosi del cinema. Perché Adriano Aprà prima di essere un cineasta rimane uno studioso dell’arte di pensare e di fare il cinema. Dunque il cinema, anzi l’idea di cinema, di Adriano Aprà? “Rossellini e Truffaut innanzitutto, poi la grandissima Nouvelle Vague…” dice senza battere ciglio alcuno. Continua Adriano Aprà: “…ero proprio entusiasta di Rossellini. Quando lui era al massimo del suo splendore filmico e culturale io, anzi noi tutti della redazione di Filmcritica, eravamo ancora dei bambini. Ricordo che Rossellini poi non amava certamente farsi adorare, adulare insomma, come si dice oggi, come noi eppure volevamo e facevamo. Lui era davvero un uomo ed un regista concreto… “. È stato dopo l’incontro, incontri poi sempre più frequenti, con Rossellini, a fare si che “…concepimmo un po’ tutti noi una nuova idea di cinema…”. Dice Adriano Aprà. “…insomma veniva certamente da lui la spinta che ci ha aperto la strada per avere poi lo spazio per potersi staccare dall’adorazione del cinema classico e legarci, insomma, proprio a doppia mandata al cinema degli anni sessanta a alla Nouvelle Vague…”.
Adriano Aprà ha vissuto l’era del cinema visto davvero come quello che era il mito, il mito assolutamente culturale. Sul comodino di Aprà non poteva mai mancare l’ultima copia dei “Cahiers du Cinema”, la mitica rivista di analisi cinematografica (come la si chiamava un tempo), fondata oltre cinquanta anni fa in Francia da un gruppo di critici appassionati, quelli cioè che dopo sarebbero diventati davvero splendidi registi, impressionando proprio un movimento, anche una scuola, quella chiamata della Nouvelle Vague: Eric Rohmer, Claude Chabrol, Francois Truffaut, Jean Luc Godard, Jacque Rivette. Niente diaframmi di difesa: è stato il momento più strepitoso per la cultura più radicale e per quella più popolare, insomma potevano sfilare a braccetto L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais e Cinque marines per cinque ragazze di Mario Mattoli, L’età della pace di Fabio Carpi e Pasqualino Cammarata capitano di fregata di Mario Amendola. Bando dunque alla malinconia, freniamo la nostalgia che certo assale naturalmente, ma Adriano Aprà tutti questi stati d’animo dell’esistenza ce li segnala assolutamente minuto dopo minuto. In questo senso resteremmo muti anche per delle ore al suo cospetto, semplicemente resteremmo solo ad osservarlo, e sarebbe certamente ancora una lezione.
Adriano Aprà significa Mostra del Cinema di Pesaro, significa Goffredo Fofi, significa migliore condizione del cinema italiano, significa rispetto, lotta, rivolta, sciopero contro il sistema bieco voluto dal mercato, significa vita, significa essere parte integrante, costruttiva, della società culturale, significa anche Alfred Hitchcock. Insomma Adriano Aprà, così come ce lo consegna la storia oggi, in ogni caso, rimane un convinto sostenitore anche della radicale importanza di un cinema quale strumento estremo di lotta politica, lui che in questo senso si è impegnato proprio nettamente, tanto da diventare e restare, in qualche maniera, uno dei principali intellettuali, un militante insomma, del cinema sempre, e proprio, in regime di contesa e di dibattito aspro. Finanche i suoi film, come attore debutta con il film Othon, diretto nel 1969 da Jean Marie Straub, un’esperienza che lo stesso Aprà definirà “fondamentale”.
Dice Adriano Aprà: “…certo, Othon, con Straub è il set in cui proprio materialmente ho imparato a fare il cinema”. Poi come regista, tra tutti il narrativo Olimpia agli amici, girato nel 1970. Dice Adriano Aprà: “…quando ho girato il mio film Olimpia agli amici avevo delle idee sul cinema, proprio come critico. Però girando il film ho visto che i problemi che si creavano erano essenzialmente tecnici, continuamente tecnici. E sono rimasto assolutamente affascinato da questi problemi. Insomma davvero i problemi tecnici mi sembravano molto più interessanti delle idee che eppure potevo avere e che volevo filmare…”. Il cinema strumento culturale necessario ed insostituibile, questo nella più ampia sintesi, era il pensiero totale, e pensiamo che resti, di Adriano Aprà: “Sicuramente. Il cinema resta sempre un campo nel quale, meglio che in altri dico, si può continuare ad esercitare una vera attività di analisi critica, anche quella più globale possibile…”. E la vita di Adriano Aprà nel cinema davvero scorre sempre attraverso questa ottica e questa tendenza. Naturalmente il laboratorio delle sue idee è da sempre il terreno del cineclub, che ha sempre frequentato, “…esattamente dal 1957…”, sia come fruitore, ma più spesso poi come organizzatore di eventi, di scelte e di proposte. Le sue riviste italiane, “Filmcritica” di cui è stato un redattore e “Cinema&Film”, di cui è stato il fondatore, restano i suoi regni assolutamente indiscutibili, assolutamente vissuti. Il Filmstudio 70 di Roma, poi, di cui è stato per lunghi anni direttore, insieme ai tanti festival ed alle tante rassegne del cinema, come quelle di Pesaro e Salsomaggiore, che ha diretto negli anni tra il 1977 e il 1998, segnano certamente gli impegni e i motivi più responsabili.
Dice Adriano Aprà: “… sono tutte esperienze che ritengo assolutamente di tipo critico. Al Filmstudio 70 ad esempio, che era una sala privata e non pubblica, curavo la programmazione quotidiana dei film. Ho fatto diventare insomma, questa sala, una piccola cineteca. Qui si è cominciato a proiettare, oltre al vecchio cinema, tutto quello che si poteva trovare di nuovo in giro, film importanti e radicali, e che in Italia, per le note e contraddittorie condizioni della distribuzione assolutamente non trovava lo spazio, insomma non veniva così facilmente proiettato. Oltre naturalmente alla continua proiezione dei vecchi film…”. Spiega Adriano Aprà che oggi è certamente cambiata anche la cinefilia più radicale e pura, un tempo era un esercizio nettamente più rigoroso e molto più selettivo. Oggi invece, assolutamente, si vive in un regime certamente più aperto, anche spensierato, in verità siamo più disponibili ai confronti. Non è più tangibile insomma quell’ostracismo nei confronti del cinema che raccoglie i più netti consensi più che altro dal popolo, non si avverte più tutto questo come “necessariamente” sinonimo di titoli di aberrante qualità. Non vi è più insomma il rigore crudele di un tempo, siamo anzi in un regime di riscoperte di pellicole anche tra le più, un tempo, considerate dabbennate. Comunque noi restiamo con queste, tra le pellicole dabbennate, proprio tra i nostri film del cuore, e restano titoli certamente lontani, pensiamo, dalla testa di Adriano Aprà. Ma il motivo in fondo è tutto qua, nel giudizio che viene dal cuore o comunque dalla testa. Bisogna vedere o capire lo stato d’animo con cui hai pagato il biglietto e ti sei sistemato sulla poltroncina, se resti insomma seduto di testa o di cuore. Per dirla ancora, a noi mancano assolutamente Bombolo e Tomas Milian,Alvaro Vitali con il Banfi prima maniera, ci mancano sempre di più Lucio Montanaro, Gianni Ciardo, Toni Ucci, Enzo Cannavale, i film di Franco Nero, quelli di Giuliano Gemma e Fabio Testi, le pellicole cannibaliche, i film firmati Alberto De Martino, Mario Caiano, Michele Lupo, Stelvio Massi, Sergio Grieco, Sergio Garrone, Frank Kramer, che invece era l’italianissimo Gianfranco Parolini, ci mancano assolutamente, sempre più, le grandi sparatorie a cavallo dei ronzini e con sopra gli eroi dei nostri anni felici: Giovanni Cianfriglia, che per il cinema diventava improvvisamente Ken Wood, Pietro Martellanza, che diventava Peter Martell, Leonardo Manzella, che invece era Leonard Mann, Luigi Montefiori, che era George Eastman, Renato Rossini, che diventava Howard Ross, Luciano Stella-Tony Kendall, Nino Scarciofolo-Jeff Cameron, Claudio Undari-Robert Hundar, ma si può continuare a lungo in questo senso a riempire davvero risme infinite di fogli bianchi. Ci manca anche Pippo Baudo con Il suo nome è Donna Rosa o Zum Zum Zum (La canzone che mi passa per la testa) e tutti gli altri musicarelli e siparietti, insomma ci manca davvero il cinema più semplice e gentile, il cinema più crudo e sboccato, quello più cattivo e degenere, ci mancano davvero le pernacchie ai potenti, insomma ci manca troppo tutto il cinema della industria italiana. E ci manca assolutamente troppo il vero Dario Argento. Ci manca insomma il cuore del cinema italiano.
Dice Adriano Aprà: “in questo senso, in Italia almeno, il critico cinematografico si era sempre comportato, ai tempi della grande industria del cinema italiano voglio dire, un po’ come il critico d’arte. Insomma guardava i film come se questi fossero stati dei quadri o dei libri. Tendeva, in questo senso, ad esprimere semplicemente solo giudizi di estremo valore, una divisione dei film, più che altro, in opere assolutamente buone o cattive. La critica insomma ha sempre tenuto in pochissima evidenza che il cinema era ormai una industria, e l’etichetta di commerciale, che spesso veniva incollata ai film, veniva gestita dal sistema, in genere, come un insulto…”. Quindi viva il cinema cosiddetto commerciale? Quello che davvero ci ha fatto battere proprio il cuore? Quello che, in qualche maniera, ci appartiene di più? Il cinema semplicemente delle vere emozioni. Titoli quali, ed è sempre un piacere dell’anima elencarne qualcuno, solo a modo di esempio, senza una vera graduatoria: Ercole contro Roma, 7 uomini d’oro, Killer calibro 32, Password: uccidete agente Gordon, I giorni dell’ira, Superargo contro Diabolikus, Armiamoci e partite, Fiorina la vacca, Il furto è l’anima del commercio, Non si sevizia un Paperino, Vai Gorilla, Luna di miele in tre, Safari Express, Non c’è due senza quattro, Bomber. In realtà poi questa ultima domanda, anzi questa ultima affermazione, l’esaltazione dei titoli più commerciali, ad Adriano Aprà non abbiamo avuto l’ardore di formulargliela, chissà poi perché, forse una certa idea di fondo che conserviamo verso il critico, che sappiamo essere, ripetiamo, di natura eccessiva, l’aveva fatta escludere a priori, ma Aprà oggi, signore davvero squisito, pacato, gentilissimo, ordinato, certo non avrebbe avuto remore di sorta ad affrontarla e a darci in merito una sua risposta precisa. Ma tant’è.
Giovanni Berardi